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DOMENICA 5 GENNAIO

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 5 GENNAIO

Ore 18:30
ISLE OF LESBOS

di Jeff B. Harmon, 1997.
(VO sott. italiano)

Ore 21:00
A DIRTY SHAME

di John Waters, 2004.
(VO sott. italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
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ISLE OF LESBOS

“Prendi Il Mago di Oz, aggiungi un pizzico di The Rocky Horror Picture Show e un boccone di Grease, quindi combinali con gli elementi di alcuni film di John Waters e aggiungi le favole che preferisci: questo è Isle of Lesbos”

Sola ed unica opera di Jeff B. Harmon, che la ha scritta, diretta e prodotta nel 1997, stendendo anche i testi delle canzoni, insomma, un degno erede di Ed Wood, che è stato pienamente all’altezza del suo illustre predecessore soprattutto dal punto di vista qualitativo che ha dato al suo (tutto suo) film unigenito.

La storia è quella di April, una ragazza acqua e sapone che vive a Bumfuck (“Cazzinculo”, come da traduzione), che presto sarà sposa del suo virile fidanzato, Dick Dickson; April però è scontenta, poichè sta scoprendo di essere attratta dall’altra sponda dell’amore, e così decide, disperata, di suicidarsi proprio nel giorno del suo matrimonio, comparendo poi, magicamente, nell’Isola di Lesbo, dove verrà accolta da un gruppo di coloratissime lesbiche che, come lei, hanno avuto la stessa bizzarra transizione; finalmente a suo agio, la nostra troverà l’amore fra le pingui braccia del capo di quel gruppo squinternato, Blatz, una corpulenta biker piuttosto rude; il ragazzo di April, Dick, intanto scopre dove si trova la sua ex amata, e, bardandosi come Rambo, decide di andarsela a riprendere…

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A DIRTY SHAME

Waters con questo film ritorna al modo di fare cinema per cui è celebre. Non nella forma, che è lucidata dall’esperienza degli anni ’90 con cast e crew di primo livello, bensì nei temi e nei toni. A dirty shame parte, che parte dalle basi del Crash di Ballard e finisce come una lussuriosa invasione di ultra-corpi-desideranti, è volgare e faceto, con un doppio senso ogni due battute, è liberamente oltraggioso e oltremodo anale, è un film che si tiene sempre e solo sul registro più basso, quello delle pulsioni sessuali e delle pratiche erotiche.

l risultato è una bella sarabanda erotofila, davvero senza freni: sta al senso del pubblico pudore di ciascuno se andare oltre alle mille provocazioni per vedere quel che c’è sotto. Perché se A dirty shame è semplicista e manicheista, in senso molto watersiano (il bigottismo provinciale di Baltimora sovvertito dalla libertà sessuale e dai “diversi”), non si può negare che – superato qualche shock e qualche risata molto grassa – sia uno spasso incredibile. Grazie a un cast divertito e divertente (il film sarebbe davvero impossibile da doppiare), a situazioni yeuch-pop e weirdo-surrealiste, ad accostamenti assurdi e incontrollati, ai geniali filmati d’archivio a simboleggiare lo status sessuale (à la Gerard Damiano).

Ma se potrebbe sembrare semplicemente come un giochino (mezzo) anarchico fine a se stesso oltre che svicolato da ogni sana struttura cinematografica (sempre detto che sia un male, è forse non lo è), questo è soprattutto un sogno, l’ultimo sogno di un sessantenne che sognava la rivoluzione sessuale e non l’ha mai vista realizzata. E così, portandosi dietro la solita manciata di canzonette della sua infanzia (quelle che sotto sotto parlano proprio sempre di peni e di vagine), Waters trasforma il film in un viaggio lisergico e onirico nella mente di un maniaco sessuale mai pacato, di un poeta della protesi che, per una volta, lascia da parte ogni “sporca vergogna” e guida il suo esercito di infoiati e ninfomani alla conquista del mondo.

E proprio come in tutti i film porno che si rispettino, il finale è proprio quello. Un’eiaculazione digitale, dritta dritta verso il cielo e poi giù fino a colpire, schiaffo spermatico!, i nostri occhi a schermo.

(http://giovanecinefilo.kekkoz.com/)


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Giovedì, presso la Casa occupata di via Don Monza 18 a Saronno.

DOMENICA UNCUT 

Lars von Trier Vs. Lloyd Kaufman

ORE 18:00

Poultrygeist: Night of the Chicken Dead

di Lloyd Kaufman, 2006.

(VO Sott. italiano)

***

Ore 21:00

Antichrist

di Lars von Trier, 2009.

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Presso:

Casa occupata di via Don Monza 18, Saronno.

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Antichrist

“Lascia ch’io pianga/ mia cruda sorte/ e che sospiri la libertà”

…È con questi versi di Handel che si apre e chiude quello che Lars Von Trier afferma essere il più importante film di tutta la sua carriera. Noi diremmo di più: si tratta del film in cui il regista danese gioca finalmente con se stesso a carte totalmente scoperte. Un harakiri cinematografico liberatorio, estremo e coraggioso

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Poultrygeist

“Questa non è una cosa di terrorismo né una cosa che c’entra con la sodomia. Questa è una cosa che ha a che fare con lo spirito di una gallina indiana infuriata”

Arbie (Jason Yachanin) e Wendy (Kate Graham) si ritrovano dopo sei mesi di lontananza. Lei si è unita ad un gruppo di protesta contro le crudeltà verso gli animali, in special modo il pollame, soprattutto in vista dell’apertura di un fast food che vende proprio quei prodotti. Wendy sembra divenuta anche lesbica e questo cambiamento sconvolge Arbie il quale si fa assumere nel ristorante inconsapevole che su quei terreni grava una maledizione indiana che colpirà polli e galline morte, riportandoli in vita.

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Comitato Autorganizzato Saronnesi Senza Casa

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29 Dicembre

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 29 DICEMBRE


Ore 18:30
INTERCEPTOR
(MAD MAX) di George Miller, 1979.

***

Ore 21:00
INTERCEPTOR – IL GUERRIERO DELLA STRADA
(Mad Max 2: The Road Warrior) di George Miller, 1981.

***

Ore 23:00
MAD MAX – OLTRE LA SFERA DEL TUONO
(Mad Max Beyond Thunderdome) di George Miller, 1985.

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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MAD MAX

Quando una banda di teppisti motorizzati, in un Medioevo prossimo venturo, gli uccide un collega e amico, un pugnace poliziotto dà le dimissioni. Quando poi durante una vacanza selvaggi punk gli massacrano moglie e figlio, si trasforma in Mad Max il vendicatore. Palesemente ispirato ai modelli del cinema hollywoodiano di azione violenta (e di giustizia privata), l’esordiente Miller, indubbiamente dotato di un certo brio effettistico e visionario, contamina fantascienza catastrofica, film di motociclette, violenza punk, gusto dell’eccesso.

 

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Mad Max 2: The Road Warrior

In un Medioevo venturo, gli uomini combattono all’arma bianca e si battono per il possesso della benzina, in un universo di penuria. Seguito di Interceptor (Mad Max, 1979), conferma il talento visivo e il senso del ritmo di Miller con qualche oncia di violenza in più. Trasposto nel territorio del fantastico, il personaggio del giustiziere acquista valenze supplementari.

 

 

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Mad Max Beyond Thunderdome

Arrivato nella città di Barteltown, dove regna una feroce regina, il guerriero postatomico Mad Max sopravvive a un duello gladiatorio nell’arena ed è esiliato nel deserto dove è salvato da ragazzi selvaggi. Pur inferiore ai primi due (Interceptor, 1979, e Interceptor il guerriero della strada, 1981), ne conserva la forza, il dinamismo e specialmente la suggestione ambientale. Nella 2ª parte e nella descrizione della civiltà infantile c’è una interessante dimensione filosofica aperta alla speranza senza scivolare nella retorica consolatoria.


Domenica 15 Dicembre

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 15 DICEMBRE

Ore 18:30

MADE IN BRITAIN

di Alan Clarke, 1982.
(VO sott. italiano)

***
Ore 21:00

BENNY’S VIDEO

di Michael Haneke, 1992.
(VO sott. italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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MADE IN BRITAIN

Il film si apre con il sedicenne skinhead Trevor (Tim Roth) che ascolta la sentenza del giudice dopo essere stato arrestato per motivi di odio razziale nei confronti della comunità pakistana e per furto. Lo vediamo uscire strafottente dal tribunale e di sottofondo c’è UK82, pezzo del gruppo punk scozzese The Exploited. Trevor viene assegnato ad un Residential Assessment Centre (centro di assistenza in cui sarà decisa la sua sorte educativa) , l’ultima spiaggia prima di finire in riformatorio o direttamente in un borstal (misura restrittiva inglese tra il riformatorio e la prigione ormai abolita).

La personalità del protagonista, interpretato ad arte da Roth è completamente nichilista e l’avvicinarsi ad idee di estrema destra propugnate dal National Front, in voga all’epoca in Gran Bretagna, sono per lui solo una scusa per sfogare la sua enorme rabbia e la suo sociopatia che lo rendono estremamente dannoso per gli altri ma in primis per se stesso. Il personaggio tratteggiato da David Leland è quanto di più forte vi sia in circolazione a livello cinematografico, ancora più violento e nichilista del suo “collega” Carlin, interpretato da Ray Winstone in Scum.

Il film cerca di stendere un’ analisi sull’utilità o meno del sistema correzionale per minori inglese, con personaggi che ne rappresentano le diverse sfaccettature. Non si schiera da una parte o dall’altra e non si pone nemmeno in un atteggiamento perbenista, ma lascia aperta una via per una riflessione, anche nel finale che è improntato in questo senso. Le scorribande di Trevor e l’interpretazione di Tim Roth non si fanno dimenticare facilmente.

Indimenticabile.

(Davide Casale)

 


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BENNY’S VIDEO

Benny è un quattordicenne appassionato di telecamere e video tanto che la sua stanza è occupata per la maggior parte da videocassette che lui guarda in continuazione. Un giorno invita una coetanea a casa, lei gli chiede che cosa è quello strano oggetto metallico e lui le fa vedere come funziona. Parte un colpo e da lì il dramma. Confessa tutto ai genitori e loro si preoccupano solo del futuro del bravo figliolo che si ritrovano in casa. Occorre trovare una soluzione….

Secondo film per il cinema di Haneke e secondo saggio sulla violenza e sull’ipocrisia medioborghese cristallizzata nel suo conformismo a cui non si può rinunciare. Comincia come una specie di snuff movie mostrando l’uccisione di un maiale con una pistola a proiettile captivo (quasi una citazione apocrifa di un corto di Franju girato in un mattatoio, dal vero), prosegue con la certificazione della mania del Benny del titolo (sarà un caso che è lo stesso Arno Frisch, qui adolescente, che sarà uno dei due psicopatici in guanti bianchi di Funny Games?) che con la sua telecamerina osserva tutto spiando anche i vicini, guarda in continuazione video trash sulla sua tv e ha una stanza occupata in massima parte da videocassette e culmina con un pianosequenza di oltre due minuti in cui Benny e la ragazza giocano con quello strano oggetto.

Da qui in avanti un continuo gioco al rialzo con l’ipocrisia classista che prende il sopravvento e genera l’orrore.
Rispetto al suo esordio aumentano i bersagli nel mirino ma permane la distanza che pone il cineasta austriaco tra sè e la materia narrativa. L’effetto è volutamente straniante perchè più neutro è il modo di raccontare, più si empatizza quello che avviene.

La cinepresa di Haneke si limita a documentare fatti, lasciando quasi tutto l’orrore fuoricampo, facendo immaginare più che mostrando chiaramente. Ma la brutalità dell’effetto sullo spettatore è praticamente la stessa anche perchè fatalmente si viene imprigionati in un delirio voyeuristico, lì fermi davanti al proprio schermo, guardando lo schermo nella stanza di Benny che mostra quello che la telecamera del ragazzo sta filmando.
Benny vive nel proprio mondo distorto, solo nella sua stanza con la sua telecamera che media la realtà per lui. Per lui la realtà che lo circonda è sempre in differita registrata su una videocassetta. Riguardo alla sequenza con la pistola mi è venuto il dubbio che per Benny quello che doveva essere un gioco, uno scherzo si era tramutato non volendo in una tragedia (all’inizio è lui che porge la pistola alla ragazza dandole della vigliacca perchè non spara) in cui ogni tentativo di porvi rimedio era peggio dell’errore precedente causa panico .

Anche il suo atteggiamento da ragazzino arrogante , come uno che ha fatto una cosa che potevano fare solo i grandi, rafforza il mio dubbio.
Uno pensa: è questo l’orrore che ci vuole comunicare Haneke? La risposta è:assolutamente no.
Il vero orrore deve ancora arrivare ed è racchiuso tutto nella apparente (non) reazione dei genitori. L’ipocrisia borghese non viene sgretolata nemmeno da un atto tanto violento: bisogna comunque preservare la facciata e il futuro di Benny.
Il tutto deciso così su due piedi dopo un breve conciliabolo.

“Perchè lo hai fatto?” domanda il padre
“Che cosa?” risponde Benny come se non capisse di che cosa stesse parlando.

Benny uber alles: domina il suo branco è lui il maschio alfa. I suoi genitori sono il paradigma della debolezza della società in cui vivono. Benny è al di sopra: si erge quasi a divinità arrogandosi il diritto di vita o di morte. O meglio la morte per lui non ha significato e l’atto dell’uccisione proprio perchè il concetto di morte è svuotato di qualsiasi valore appare anche esso senza significato.

(http://bradipofilms.blogspot.it/)

 


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Domenica 8 Dicembre

Domenica Uncut

Domenica 8 Dicembre

Ore 18:30

ELECTRIC DRAGON 80.000 V
(えれくとりっくどらごんはちまんぼると)

di Sogo Ishii, Japan, 2001.
(VO. sott. Italiano)

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Ore 21:00

LATE BLOOMER
(Osoi hito, おそいひと、)

di Shibata Gō, Japan, 2004.

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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ELECTRIC DRAGON 80.000 V

Che l’Oriente sia la salvezza del cinema? L’originalità cinematografica sembra ormai da qualche anno risiedere in terra orientale, che sforna prodotti sempre più interessanti e sempre più svincolati dai teoremi hollywoodiani del caso.

Prendete ad esempio “Electric dragon 80.000 V” di Ishii Sogo e ditemi se in meno di 60 minuti vi era mai capitato di ricevere una quantità così elevata di sensazioni, emozioni e pensieri.

Velocemente, quasi come suggerito da immagini frenetiche, veniamo a conoscenza di Dragon eye Morrison, giovane giapponese che, in seguito ad una scarica elettrica, si ritrova la capacità di poterla incanalare nel suo corpo. L’unico modo che ha di scaricare tutta l’energia è quello di suonare la sua fidata chitarra elettrica. Da un’altra parte della città però, Thunderbolt Buddha è un esperto di telecomunicazioni, abilità che sfrutta per intercettare telefonate di ignari passanti. I due si scontreranno in un duello all’ultimo lampo per decidere a chi spetta il dominio energetico di Tokyo.

L’aggettivo che più si adatta a questo film è senza ombra di dubbio elettrico, e non solo per il rimando evidente alla trama. Elettrica è la macchina da presa, che scorre con velocità e con un ritmo forsennato tra i palazzi di Tokyo, elettrico è il montaggio iper-cinetico ed elettrica è anche la scenografia che, attraverso gli alti grattacieli, opprime e schiaccia gli uomini, ma li trasporta anche in quel cielo pronto a scoppiare di fulmini ed elettricità da un momento all’altro. E se l’immagine è elettrica, il suono e le musiche non sono da meno: per tutto il film scorre lento il rumore della trasmissione della corrente nei cavi dell’alta tensione tra stridii e note musicali inventate, fino a quando subentra la chitarra elettrica stridente, ammaliante e disturbante come le sirene di Ulisse, formando una delle colonne sonore più sperimentali ed emozionanti degli ultimi anni.

Ma non è solo una questione stilistica. “Electric dragon 80.000 V” è anche tematicamente elettrico. Non si parla dell’eterna lotta tra il bene e il male qui, Sogo riesce ad andare oltre a queste due definizioni dipingendo due personaggi che si completano l’uno con l’altro ma che, come due poli opposti, inevitabilmente si scontrano e producono scintille. Se Morrison è la natura primitiva dell’uomo, l’essere in cui regna l’istinto e la primordialità dei bisogni (non sono un caso gli sfoghi alla chitarra), Thunderbolt Buddha è la perfetta incarnazione dell’uomo moderno, dalla personalità divisa (la mezza maschera) e dai bisogni repressi. I due si completano l’un l’altro, ma l’unione tra loro non è possibile.

Che l’Oriente sia la salvezza del cinema? Secondo me la risposta è sì. Nuovi linguaggi, nuove teorie, nuove storie.

(www.pellicolascaduta.it)


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LATE BLOOMER

Il termine “Late Bloomer” definisce un bambino rimasto attardato rispetto ai propri coetanei per via di uno sviluppo più lento che, d’un tratto, colma il divario che lo separa dai suoi pari, arrivando perfino a superarli. Definisce anche un adulto il cui particolare talento, celato per anni al riparo di una vita anonima e tranquilla, improvvisamente si desta, permettendogli un deciso balzo esistenziale.

Il Late Bloomer in questione è Sumida-san, un disabile trentacinquenne dalla vita semplice, spesa tra grandi bevute di birra e i concerti del gruppo hardcore del suo migliore amico Take. Un giorno conosce Nobuko, giovane studentessa che vorrebbe trascorrere del tempo con lui per poterlo studiare da vicino e ultimare così la sua tesi di laurea. Sumida se ne invaghisce e decide di portarla con sé ad un concerto di Take. Quando però tra Nobuko e l’amico nasce un sentimento più profondo, Sumida perde il controllo, e da buon Late Bloomer compie il suo scatto, feroce, in avanti.

Seconda opera del talentuoso regista indie Shibata Go, viene notato in Occidente solo l’anno scorso, con quattro anni di ritardo rispetto alla sua uscita giapponese. L’idea alla base prende le mosse da una semplice domanda: “Può essere interessante vedere un film con un disabile killer?”. Girato in un bianco e nero digitale, con stile anarchico e sperimentale, Late Bloomer fa della disarmonia un linguaggio, alternando al surreale verismo di un quotidiano dipinto con taglio quasi amatoriale, luci naturali e camera a mano, lisergiche distorsioni e frenetiche accelerazioni cyberpunk degne eredi del miglior Tetsuo. La musica di World’s End Girlfriend segue e sottolinea l’immagine, ed è un compendio pregiato dell’elettronica di fine novecento, mischiando con disinvoltura la tradizione ad atmosfere jazz e all’industrial, rievocando alla grande le sonorità malate predicate da Aphex Twin e compagni più di un decennio fa.

Impossibile restare indifferenti, come è impossibile non provare empatia per Sumida e cercare di guardare il mondo con i suoi occhi. Shibata Go lo sa, e si avvicina quanto basta per farci toccare con mano la parabola del disabile verso la follia. Scoprire il pericolo mortale in un uomo all’apparenza così inerme getta immediatamente una nuova luce sul protagonista, il potenziale di violenza si manifesta in tutto il suo orrore e diventa pervasivo di ogni gesto, di ogni sguardo, di ogni silenzio. Sumida-san è ora un individuo come e più grande di noi. Uno di cui avere paura. Tanti sono i riferimenti cinematografici presenti: oltre al già citato film di Tsukamoto, è dichiarata e strutturale l’influenza di Taxi Driver, di cui viene riproposta la scena della preparazione domestica del protagonista all’omicidio, come di Battles Without Honor and Humanity, Freaks e di Psycho, con Sumida-san che come Norman Bates si permette il lusso di un atroce delitto nel bagno; ma il rimando è anche alle opere di Von Trier, Herzog, Koji Wakamatsu e Jodorowsky, e alla loro maestria nel dipingere e indagare il senso tragico proprio della normale condizione di umana anormalità; non dimenticando certo gli slasher movie del gorefather Herschell Gordon Lewis, di cui condivide atmosfere e il piacere sincero nell’esagerare col sangue. Uno dei migliori film giapponesi degli ultimi anni.

(FGMG)

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DOMENICA UNCUT

DOMENICA 24 novembre 2013

Ore 18:30
KAMIKAZE GIRLS
(下妻物語, Shimotsuma monogatari, “La storia di Shimotsuma”)
di Tetsuya Nakashima, Japan, 2004.

Ore 21:00
MEMORIES OF MATSUKO
(嫌われ松子の一生, Kiraware Matsuko no Isshō)
di Tetsuya Nakashima, Japan, 2006.
(Vo sott. in italiano)

PROIEZIONI GRATUITE


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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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KAMIKAZE GIRLS

Una ragazza corre all’impazzata cavalcando un motorino, in una strada immersa nei campi. Non controllando un bivio, inaspettatamente, avviene lo scontro con un camioncino. La ragazza viene sbalzata in aria ed esprime il suo ultimo desiderio.

Molte storie potrebbero finire così, ma invece questo è l’inizio di un folle e divertentissimo film.

Kamikaze Girls è uno scontro di stili, di ambienti, di modi di essere. Interessante notare di come si tratti di una storia adolescenziale, ma non fatta con gli occhi di una ragazzina, ma di un adulto forse non troppo adulto, che sa perfettamente come gestire l’apparato comico, ma al contempo anche quello (melo)drammatico ed emotivo. Il film, però, possiede il non facile pregio di risucire a marcare bene la questione dell’ ”essere e dell’apparire” senza cadere nel fazioso né, soprattutto, nel pedante.

Momoko e Ichigo, sono lo specchio estremo della gioventù giapponese, la prima tutta casa, musica classica, ricamo e vestiti da lolita, la seconda indisciplinata, grezza, sempre per strada e in cerca di guai. Eppure l’apparenza non è lo specchio del loro vero essere e la più piccola e apparentemente capricciosa Momoko, si dimostra molto più matura e sicura di sé di Ichigo, che agli occhi di tutti risulta essere una persona inflessibile e tutta d’un pezzo.

Nota di merito all’attrice Anna Tsuchiya, che nel film interpreta Ichigo, riuscendo ad interpetare un ruolo non così immediato per una ragazza (una specie di surreale Bunta Sugawara al femminile); si giostra frammentariamente il ruolo della ribelle, della violenta, dell’irrispettosa, ma allo stesso tempo riesce a calarsi nella parte di una persona dal costante bisogno di una forte amicizia, di un riscontro dagli altri, senza mai perdere, però, l’atteggiamento abituale.

Kamikaze Girls non è un film da sottovalutare, non è il solito e banale veicolo pubblicitario per una cantante, è infatti ben lontano dalla solita cinematografia cool e dall’estetica da videoclip; riesce invece a fondere il gusto tipicamente giapponese per una iconografia da manga a gag che sfiorano l’inverosimile. La regia ottima e coinvolgente si fonde poi ad una fotografia satura di colori al limite del lisergico. Una buonissima sceneggiatura sorpendente e mai banale su cui tuffarsi, facendosi cullare dalle note della splendida colonna sonora di Yoko Kanno.

(Martina Leithe Colorio http://www.asianfeast.org/)

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MEMORIES OF MATSUKO

Immaginate un melodramma di Douglas Sirk, ma immaginatelo come se fosse stato girato in acido, e avrete lontanamente un’idea di cosa è Memories of Matsuko (2006). La nuova straordinaria opera di Tetsuya Nakashima (tratta dal romanzo di Muneki Yamada), è stato – almeno per chi scrive – il vincitore morale del Far East Film 2007.
Già il delirante e divertente Kamikaze Girls (2004), aveva fatto capire le capacità registiche di Nakashima, qui però si va ben oltre la messa in scena.

Memories of Matsuko racconta la storia della protagonista partendo dalla fine e si dispiega di fronte ai nostri occhi sotto forma di flashback. Un percorso, che ci accompagna attraverso il Giappone degli ultimi cinque decenni e delinea la tragica, a volte comico-grottesca, vita di una ragazza che, senza troppi giri di parole, voleva soltanto amare e soprattutto essere amata.

Lo stile visivo coloratissimo (che guarda alla pittura, ma anche alla pubblicità), stracolmo di idee e ricca di particolari, rimane lo stesso di Kamikaze Girls, con una fotografia e un uso dei colori strepitosa, ma è la costruzione della storia e dei personaggi che si compie in maniera memorabile.
Buona parte del merito va al notevole cast, con in testa Miki Nakatani, meritatamente premiata per la sua interpretazione ai Japan Academy Awards, e il giovane Kawajiri Shou nel ruolo del nipote che ripercorre la vita di Matsuko.

In Memories of Matsuko, la commedia, già piuttosto nera, si colora rapidamente di tragedia per finire nel melodramma più puro, senza apparire mai stucchevole, mai ridicola, mai ricattatoria. Il regista inoltre si concede frequenti incursioni nel musical, con lunghe elaboratissime coreografie ed una azzeccata colonna sonora (a cura dell’italiano Gabriele Roberto, è stata premiata ai JAA), che copre in pratica ogni direzione musicale immaginabile.

Insomma, il film è una densa bouillabaisse di generi, stili, sperimentazioni, sentimenti ed emozioni, che quasi faticano ad essere tutti contenuti, ma che magicamente trovano un loro perfetto equilibrio, creando un ritratto assolutamente unico e coinvolgente, come non se ne vedevano da un bel pezzo. Nakashima (il cui prossimo film, Paco and the Magical Picture Book, ci esalta fin dal titolo), senza dubbio uno dei registi giapponesi contemporanei più interessanti, ci regala con Memories of Matsuko un racconto struggente di rara bellezza, che potrebbe commuovere anche un sasso.

Cinema con la C maiuscola. Da non perdere.

( Paolo Gilli http://www.asianfeast.org/ )


[3/NOV] AMERICAN MARY // HELLDRIVER

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 3 novembre 2013

Ore 18:30
AMERICAN MARY

di Jen Soska, Sylvia Soska, 2012.
(VO sott. italiano)

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Ore 21:00
HELLDRIVER

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di Yoshihiro Nishimura, 2010.
(VO sott. italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
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AMERICAN MARY

Se mai, nella storia del cinema horror, è esistito un film dichiaratamente “femminista” nel senso più stretto del termine, non potrebbe che essere questo American Mary, vero e proprio canto del cigno al sangue sull’emancipazione della donna.

Colpevoli dell’operazione sono due sorelle gemelle qui alla seconda prova registica, le signorine Soska, presenti nel film in un piccolo cameo nel ruolo di due gemelle dark che non possono essere siamesi perchè non legate nella carne (in pratica loro stesse).

Queste gentili donzelle ci portano attraverso il volto glaciale ma ultrasexy della protagonista, Mary Mason (bastava una …lyn in più sul nome per rendere esplicito l’omaggio!), in una sorta di inferno underground ambientato per lo più dentro un locale striptease dove transitano un considerevole numero di persone a cui non sembra giusto che sia Dio a decidere del loro aspetto fisico.

Studentessa promettente in chirurgia, Mary deve sanare il suo disastroso bilancio e tenta un colloquio in questo dubbio locale come lap dancers, ma il proprietario, dedito alla tortura e all’estorsione scopre subito le sue potenzialità nel ricucire e tagliare la carne delle vittime dei suoi “interrogatori”. Da lì a poco Mary verrà contattata dall’assurda Beatress, una sosia di Betty Boop a cui la chirurgia plastica ha dato contorni grotteschi: le serve un chirurgo che tolga quegli ultimi elementi femminili alla sua amica Ruby Realgirl che ambisce a diventare a tutti gli effetti una bambola di carne attraverso l’asportazione dei capezzoli e la chiusura semitotale del pube (una sorta di Barbie in carne umana). Invitata ad una festa di chirurghi Mary viene drogata e violentata dal suo professore, un gesto vigliacco che scatenerà in lei una vendetta senza precedenti.

Le sorelle Soska riprendono il tema della nuova carne portato avanti da David Cronenberg a partire dagli anni settanta, e lo sposta nel circuito degli appassionati di impianti sottocutanei, piercing e roba del genere. Mary diventa una poetessa della manipolazione fisica di chi vuole cambiare, di chi vuole mutare la propria forma con sembianze spesso simili a quelle del diavolo (o Dio?). Mary diventa anche un angelo vendicatore implacabile, oscillando tra una lucida pazzia e un normale sadismo omicida eppur capace di sentimenti d’amore (ma la storia d’amore con il proprietario del locale rimane solo accennata). Lo stile cinematografico, non esente da qualche imperfezione dettata probabilmente dall’inesperienza, è asciutto e scorrevole, l’attrice Katharine Isabelle è perfetta nella sua duplice interpretazione di crudele dominatrice e sensuale innocente, difficile dimenticarsi del suo volto e del suo sguardo a fine visione. Inutile dire che il sangue scorre a fiotti ed alcune scene rasentano l’insostenibile, ma la pellicola è quanto più distante si possa trovare dal Torture porn, nulla di quanto si vede appare gratuito, tutto è perfettamente inserito in una storia drammatica e crudele alla quale è difficile non appassionarsi.

Affine per certi versi a Excision, American Mary si presta a diventare un piccolo capolavoro del nuovo cinema horror al femminile, che tra non molto inonderà di sangue e Mascara le sale di tutto il mondo.

(Dottor Satana http://www.splattercontainer.com/)


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HELLDRIVER

E tre anni dopo ci troviamo a guardare il nuovo film del regista di Tokyo Gore Police, quello che era stato un po’ il via o comunque facente parte della prima onda d’urto del (sotto)genere denominato poi ufficialmente Sushi Typhoon. Nel frattempo molta acqua è passata sotto ai ponti di questa remunerativa costola della Nikkatsu nata in maniera furba come aggiornamento del già esistente, ma bagnato da un’aura di esotismo spalmata a modo, giusto per allettare un pubblico prevalentemente nord americano.

E paradossalmente tanto ha fatto, visto che il filone si sta gonfiando, invaso dai molti cloni prodotti dalla concorrenza che stanno seguendo regole e modi dettati dai “pionieri” arrivando ad inquinare con le loro impronte anche impensabili prodotti pensati per la tv (The Ancient Dogoo Girl, Hara Peko Yamagami Kun). La marca caratteriale e continua del tutto? Gli effetti speciali particolarmente “autoriali” e pop; Nishimura Yoshihiro, infatti, nasce come effettista ma negli ultimi anni ha ampliato la propria azienda circondandosi di collaboratori e alleggerendosi la parte operativa dedicando più tempo a quella artistica e alla regia.

Helldriver è un successo, non fosse altro per il progresso macroscopico rispetto al precedente film e per la grande inventiva, ritmo e qualità che spesso sono del tutto assenti nei film prodotti all’interno di questa sorta di franchise. Il regista raddrizza il tiro, spinge di più sulla narrazione, e forte di un budget vistosamente maggiore regala un florilegio continuo, finanche eccessivo (ed è giusto che sia cosi), di invenzioni e trovate dove l’effetto è sempre la fonte primaria del meraviglioso.

Alla fine si storce il naso giusto per delle citazioni puerili e urlate di qualche successo hollywoodiano, ma fortunatamente sono soverchiate spesso da altre finezze tra cui vale la pena citare la co-protagonista Eihi Shiina che autocita sé stessa nel ruolo di Asami Yamazaki del bel Audition di Miike Takashi.
Il regista ha impatto, idee precise e un buon universo in testa anche se manca totalmente di senso del grandeur, di pathos e emotività, elementi che sorgono davvero di rado facendo però -di nuovo- avvertire una piacevole evoluzione nel proprio mestiere.
Un po’ di satira socio-politica e due sequenze esageratamente irripetibili sono le ciliegine sulla torta di questo delirio splatter pop che galoppa per due ora senza mai annoiare spingendosi ad occupare per intero tutti i titoli di coda e regalando il classico doppio finale, facendo in parte dimenticare le classiche cadute di stile e di mestiere; personaggi inutili che durano una manciata di minuti, lungaggini ripetitive e le classiche debolezze di Nishimura, grezzo, rozzo, a tratti tecnicamente analfabeta ma che con questi prodotti tutto sommato solari e di puro intrattenimento riesce ad evocare titoli concettualmente simili del passato e nomi di registi come Suzuki Noribumi, uniti alle follie del giovane Ching Siu-tung (senza ovviamente possederne lo stile).

Un film più scritto “quindi”, pregiato da quei giochi di sceneggiatura che sono solitamente assenti negli altri film uscenti dalla fucina della Nikkatsu/Sushi Typhoon ed eccessivo in tutto inclusi i titoli di testa che esplodono a metà metraggio e subito dopo un anomala scena tali da far ipotizzare un fine film, salvo poi smentirlo con una seconda parte ancora più delirante.

Una ragazza è continuamente vessata da sua madre, fin quando nel climax dell’ennesimo abuso una meteora colpisce la donna, giusto il tempo di permetterle di strappare il cuore alla figlia per poi pietrificarsi. La meteora ha anche il “merito” di trasformare la popolazione in una sorta di esercito di zombie alieni e il Giappone viene cosi diviso a metà da un muro al nord del quale risiedono tutti i contaminati. Scienziati del governo giapponese incastonano nel torace della ragazzina un nuovo cuore a motore collegato ad una katana dalla lama a catena (come una sega elettrica) al fine di inviarla nella zona a rischio; suo obiettivo primario, la ricerca della madre e il lancio di un segnalatore per fare in modo che i militari possano sganciare su di lei con maggiore precisione dei missili e annientarne la minaccia una volta per tutte. Ma l’obiettivo della ragazza è principalmente il riscatto, la vendetta e la ricerca di una sua felicità negata. Nel frattempo la madre risvegliatasi è divenuta il peggiore dei problemi che un paese possa avere, una creatura mutante capace di ergere, tra le altre cose, colossi monumentali composti di corpi (come nel bel racconto di Clive Barker In Collina, le Città). Gran tourbillon di comparse note (tra cui Takashi -Ju-On- Shimizu), buona colonna sonora e una confermata speranza per i prossimi lavori della Sushi Typhoon.

(Senesi Michele Man chi http://www.asianfeast.org/)


[27 ott.] BARFLY // NAKED

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 27 OTTOBRE

Ore 18:30

BARFLY

(Barbet Schroeder, Usa, 1987)

***
Ore 21:00

NAKED

(Mike Leigh, UK, 1993)


PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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BARFLY

Un quadro di degradazione umana esce da Barfly; nessun ricorso alla caduta dei valori, alcun riferimento alla cattiveria delle persona, solo il dipinto di persone ai margini che scelgono un po’ per istinto un po’ per necessità e povertà di intenti, di restare lontano dalla vita produttiva e che conta. “Mosconi da bar”, appiccicaticci ascari che si annidano su una lercia sedia nella penombra di un pub le cui persiane rimangono chiuse alle 3 di pomeriggio; bicchiere in mano, sguardo spento, discorsi che languono e si abortiscono ancora prima di essere formulati con compiutezza, parole che vorrebbero sortire da gole ingrossate dagli alcolici ma che si soffocano da sole strozzate dall’ennesima pinta….
(Macina)


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NAKED

Inizia con quello che assomiglia ad uno stupro in una stradina mezza buia di Manchester: tanto per invitarci subito a non simpatizzare con quel genere di protagonista.
Dovremmo odiarlo questo Johnny dalla faccia d’angelo, ma di quelli sterminatori: il solito marginale. E nel film, la solita galleria di personaggi nella vertigine della civilizzazione.
E invece no: finiremo per adorarlo questo Johnny.

Già lo vediamo con un altro occhio, ora che sbarca a Londra: nell’appartamento incasinato di una sua ex-ragazza che ci coabita con l’amica; una specie di uccello notturno costretto a svegliarsi alla luce di mezzogiorno.
Sarà per la fragilità smunta delle due, o per una specie di detestabile yuppie che, parcheggiata la Porsche sotto casa, installa sé stesso e la propria legge ruffiana nei letti di casa. E sarà per quel modo tutto suo, che ha Mike Leigh di raccontare: con un pizzico di compassione, di tenerezza che affiora dalla paura per quegli abissi che si spalancano poco distanti; e, cosa più rara, un umorismo feroce. Strappato a viva forza da un contesto che ci invita a ben altre riflessioni.

È questo il tono di Mike Leigh, ciò che rende il suo film indimenticabile: la crudezza, la volontà di affondare nella miseria, di far sputare sangue e bestemmie ai suoi poveracci, ma di non perdere mai di vista la relatività di queste vicende terrene. Ben oltre la loro disperazione: quando raggiungono le spiagge, ancora più significative, della loro assurdità.

Nell’universo crepuscolare che Johnny continua ad esplorare, le sue osservazioni sono come sprazzi di vita: ci strappano la risata, ma al tempo stesso temiamo che queste situazioni degenerino. Perchè Johnny finirà ovviamente calpestato sull’asfalto, ma citando Shakespeare, e invocando l’Apocalisse, spiegando Omero ed Hitchcock ad un guardiano notturno; uno dei tanti personaggi dalla solitudine lunare. Mentre ad una delle sue belle racconta, che il Discobolo che fa da soprammobile, assomiglia al fattorino che consegna le pizze a domicilio.
Tutto organizzato attorno alla noncurante disperazione del suo protagonista, “Naked” nasce da un’esigenza assoluta di far cinema, di sprofondare l’occhio della cinepresa dove gli altri si fermano alle formule.

Così Johnny, smunto ancora per le botte prese, a malapena risistemato dalla cure dei suoi coraggiosi angeli custodi, dopo aver bevuto e pianto mormorando le canzoni dell’infanzia agrodolce di Manchester, cosa volete che faccia se non continuare a “derivare”?

E lo vediamo allontanarsi zoppicando lungo la riga bianca sull’asfalto, come un uccello fatto a pezzi che tentare ancora di svolazzare. Come il nostro tempo: ad altezza d’uomo. Ad aspirazione cosmica.

Premio alla regia e all’interpretazione maschile a Cannes.

(Andrea Olivieri )

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6/Ott. VISITOR Q // ICHI THE KILLER

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 6 OTTOBRE 2013

Ore 18:30
VISITOR Q
(ビジターQ di Takashi Miike, 2001)
VO sott.Italiano

Ore 21:00
ICHI THE KILLER
(殺し屋1 di Takashi Miike, 2001)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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VISITOR Q

Faresti sesso con un genitore? Picchieresti tua madre?Sono alcune delle domande che fanno nei centri psichiatrici vecchia maniera, per capire il tuo grado di pazzia. Quiz: rispondere con una crocetta sul sì o sul no.Miike comincia il film dando realtà fisica a queste domande, illustrandoci una situazione familiare allucinante in cui i rapporti tra gli individui ed i canonici valori sono completamente ribaltati…La figlia maggiore ma ancora studente vive fuori di casa e si prostituisce per mantenersi. Tra i clienti avrà il padre, complessato eiaculatore precoce, che fa il reporter per la tv e sta conducendo un indagine sul fenomeno del bullismo giovanile con dubbi risultati. Verrà preso a sassate in testa da un personaggio indefinibile, un giovane, che porterà a casa sua. Il figlio è il despota della madre, la riempie di frustate con dei battipanni senza alcuna ragione, la picchia e basta. La donna è tossicodipendente all’insaputa di tutti e si prostituisce solo per pagarsi la droga. Il figlio è quotidianamente vittima del bullismo di compagni di classe che si spinge fino a casa sua, dove gli sparano contro petardi e fumogeni…Insomma, una situazione davvero pazzesca, nella quale il “visitor” s’inserisce come figura comprensiva e tollerante, si relaziona con affetto con tutti tranne con la figlia assente, che incontrerà solo nel finale.Poco dopo il suo arrivo tutti i soggetti della famiglia cominciano a “ribellarsi” alla loro condizione, e allora se la situazione precedente era definibile pazzesca, per quella che segue non ci sono aggettivi.Il finale sarà un curioso ritorno al nettare materno, un arretramento collettivo all’infanzia, un punto da cui ripartire.Trama ermetica, enigmatica. Se qualcosa non “dovrebbe” accadere puoi star certo che accadrà.Horror psicologico, amorale, senza sangue ma molto più orticante di uno splatter, con persino alcune scene di irresistibile comicità.Miike è un grande, ma forse non è per tutti. (http://robydickfilms.blogspot.it)


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ICHI THE KILLER
Come limite estremo Ia violenza, e non più il sesso, è l’ultima frontiera – e Takashi Miike lo sa. Regista fuori dagli schemi con uno stile personalissimo, dotato di ambizione, talento ed energia spropositati, Miike ha alzato rapidamente la posta della violenza fino a livelli che sembrano, a seconda dei punti di vista, ripugnanti, terribili o assurdi. Malgrado le connotazioni di feticismo presenti nell’opera di Miike – ha per il piercing la stessa ossessione che Hitchcock aveva per le bionde algide – c’è in lui un lato comico, addirittura umanistico.

Il suo ultimo oltraggio al pudore è Ichi the Killer, un thriller gangsteristico basato sul fumetto cult di Hideo Yamamoto. Un inetto si trasforma in un’implacabile macchina da guerra ma alimenta il fuoco della rabbia con lacrime di ricordi delle sue umiliazioni adolescenziali. Pur richiamando alla memoria Crying Freeman, un famoso manga su un killer piangente, Ichi the Killer aggiunge un effetto nuovo e perverso: l’eroe gode ogni volta che uccide. La storia inizia con un tipico luogo comune dei film di gangster: il capo di Anjo-gumi e la sua giovane amante vengono uccisi; i superstiti, guidati dall’impetuoso vice di Anjo, Kakihara, sciamano rabbiosi per tutta Shinjuku, assetati di vendetta. Kakihara dà la caccia al killer del suo capo con una calma inquietante, punteggiata da esplosioni di crudeltà diabolicamente originali. Mentre il numero dei cadaveri aumenta, si avvicina il momento della resa dei conti: Ichi contro Kakihara. Chi perde, a quel che sembra, non andrà a fare compagnia ai pesci, ma finirà ridotto in poltiglia dentro un sanguinoso action painting. Shinya Tsukamoto e Sabu, entrambi acclamati registi indipendenti per conto loro, sono convincenti nei rispettivi ruoli, e aggiungono ai loro modelli manga una terza dimensione, quella umana.

Ma è Tadanobu Asano, nei panni di Kakihara, il centro malefico e sogghignante di questo film estremo. Abituato a calarsi nei panni di tipi tranquilli che ribolliscono di un fuoco interiore, Asano interpreta il boss dai capelli color fuoco con una giovialità psicopatica agghiacciante.

Mark Schilling (http://www.fareastfilm.com)

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Video

29 Set. REPULSIONE // L’INQUILINO DEL TERZO PIANO

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 29 SETTEMBRE

Ore 18:30
REPULSIONE

(Repulsion, Roman Polanski, 1965)

Ore 21:00
L’INQUILINO DEL TERZO PIANO

(Le locataire, Roman Polanski, 1976)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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REPULSIONE

Estraniante e febbrile discesa lungo le strettoie della mente umana, nei labirinti della follia dove è arduo districarsi. Se si intraprende questo lungo e oscuro sentiero, la normale quotidianità trasfigura in un allucinato susseguirsi di movenze, pruriti, paure attraverso i quali incedere a passo informe e irreversibile. Roman Polanski filma una centrifuga di repulsioni e repressioni, ossessioni disturbanti e indicibili deliri notturni all’interno di un luogo di isolamento, un appartamento dalle pareti crepate lungo i cui solchi defluiscono sudori di pallida angoscia.

Carole (Catherine Deneuve) è una giovane e affascinante manicure di un centro estetico molto frequentato. A causa di alcuni disturbi della personalità, la sua bellezza rappresenta soltanto l’ultimo elemento di una vita vissuta in disparte: la giovane, infatti, soffre di una incomprensibile repulsione verso gli uomini che la spinge a isolarsi evitando le ingerenti avances di coloro che le ronzano intorno. In particolar modo sviluppa un crescente rigetto nei confronti dell’amante (sposato) della disinibita ed emancipata sorella Helen. Quando quest’ultima decide di partire per una decina di giorni con il concubino, la fragile sorella la supplica invano di non abbandonarla. Sola, in preda a psicosi domestiche irrefrenabili, Carole scivola lentamente in un delirio crescente di incubi inconfessabili che avanzano con andatura sinistra tra le pareti di casa.

Quando né le mura domestiche, né i confini della mente, si ergono a protezione delle nostre più profonde paure, anche il mondo che vive al di fuori diventa un inferno in terra. E se le ossessioni non sono altro che il rovescio della medaglia di subconscie frustrazioni e repressioni, allora il luogo nel quale si manifestano (e le manifestazioni stesse), per un gioco di repulsione/attrazione rappresenta l’unico (terrificante) posto vivibile. Polanski scava nei perversi condotti della psiche umana, e conferisce un’opprimente carica simbolica ad ogni elemento visivo che possa condurre lo spettatore a “cronometrare” (con il ticchettio assordante delle lancette o le campane di una chiesa) la discesa nella follia. La cena organizzata con la sorella Helen e il suo amante, dissertata dai due che preferiscono all’ultimo minuto il ristorante, è l’abbrivio dello sprofondamento di Carole in un graduale stato letargico che avanza inesorabilmente, come procede la putrefazione della carne (del coniglio esposto in salone) o i germogli dei tuberi abbandonati in cucina, residui stantii di quella cena negata. Nonostante il regista polacco non indaghi le cause (intuibili ma mai rivelate) di tale distacco dalla realtà, l’agghiacciante deliquio della sua protagonista è netto, e lascia crepe ovunque. Assoluto capolavoro di tensione visiva e psicologica (la sequenza della porta dietro l’armadio è da brivido), supportato da uno straordinario bianco e nero nel quale le ombre cerebrali diventano asfissiante tripudio di visionarietà.

(Giuseppe Salvo http://www.silenzio-in-sala.com/)


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L’INQUILINO DEL TERZO PIANO

Un uomo di origini polacche, Trelkovski, affitta un appartamento dopo una curiosa trattativa col proprietario che lo inonda di divieti. L’inquilina attuale, Simon Chule, è in fin di vita all’ospedale dopo essersi gettata dalla finestra. Incuriosito la va a trovare in ospedale, restandone particolarmente colpito. La ragazza morirà e Trelkovski prenderà possesso della casa, solo che dovrà rendersi conto che più che un condominio è una specie di Regno. Tra i condomini vige un regime, dominato dal locatore dispotico, la portinaia pretoriana ed altri: o stai con loro o sei contro. Una situazione di vita angosciante, anche perché i condomini manifestano altri comportamenti bizzarri…

La cosa lentamente produce nel brav’uomo una condizione di persecuzione che diventa sindrome, comincia ad immaginare anche situazioni non reali, percepisce da parte dei condomini e persino da persone esterne il progetto di ucciderlo o meglio di portarlo al suicidio, proprio come Simon ha fatto prima di lui. All’inizio la situazione è persino relativamente comica, poi il film cresce, fino alla fine, in continua angoscia. E non c’è soluzione.

Film misterioso e per questo affascinante, sia per quanto accade che per un finale che “accerchia” la trama. Tante le domande e le possibili interpretazioni: è tutto immaginato o Trelkovski ha realmente vissuto quelle esperienze? cosa rappresentano i geroglifici egizi che trova nel bagno comune? che senso hanno i denti nel muro? MA la domanda irrisolvibile è: quanto della perfidia dei vicini è reale o immaginata?
Non ho risposte proponibili.
Cito solo un curioso momento in cui il protagonista, parlando di fatti di cronaca riguardo a mutilazioni, si chiede se ogni singola parte del corpo contiene il nome della persona che la possedeva o meno, davvero interessante e qua il discorso può sconfinare nel religioso. Fatto sta che un braccio non ha diritto a sepoltura se non quando viene tumulato insieme a tutto il resto del corpo. Mi ha fatto ridere parecchio!

Scritto, diretto e interpretato da protagonista dallo stesso Roman Polanski, BRAVISSIMO in tutti i ruoli, tratto dal romanzo “Le locataire chimérique” di Roland Topor. Non capisco con che logica un polacco naturalizzato francese diventi nel doppiaggio un francese naturalizzato italiano, a riguardo dell’accento, ma devo dire che la cosa rende benissimo, soprattutto nel tono di voce dimesso.
Ho letto che è stato fatto uso, tra i primi film in assoluto a farlo, della Louma. Alcune riprese hanno effettivamente angolazioni da vertigine, in particolare quelle all’interno del cortile sono notevolissime.

IMPERDIBILE! Non stancherebbe se visto più volte.

(http://robydickfilms.blogspot.it/)


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Kim Ki-duk – domenica 18 agosto

SULLA RIVA DEL LAGO DI COMABBIO
Domencia 18 Agosto


ORE 21:00

BAD GUY

(Nappŭn namja di Kim Ki-duk, S. Korea, 2002)

***


ORE 23:00

L’ISOLA

(Seom di Kim Ki-duk, S. Korea, 2000) FREE ENTRY

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Presso LA SAUNA recording studio
Via dei Martiri n.2 -Varano Borghi (VA)
https://www.facebook.com/pages/La-Sauna-recording-studio/68777161401

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BAD GUY
Un giorno Han-ki, boss della malvita del quartiere a luci rosse, incontra per caso per la strada una studentessa delle scuole superiori di nome Dun-hwa. Han-ki ne è immediatamente attratto e tenta un approccio, ma la ragazza gli da un’occhiata disgustata e tenta di andarsene, se non fosse che il gangster la aggedisce e costringe la ragazza a baciarlo. Han-ki progetta di avviare la ragazza alla prostituzione: dopo averla fatta prigioniera in una stanza, Han-ki trascorre le sue notti a spiare, da una finestra nascosta, la sua vittima.

Kim Ki-duk mette in scena diversi piani di realtà, mescolando il ricordo con il sogno, il desiderio con la realtà. Poco importa allora ricostruire il filo del racconto, che vede Han-gi, “bad guy” silenzioso e poco socievole, tessere intorno a Sun-hwa una tela che la porterà a prostituirsi sotto i suoi occhi. Perchè in “Bad Guy” non hanno importanza le ragioni psicologiche dei personaggi o la coerenza degli avvenimenti che, in quanto tali, semplicemente accadono.
La macchina da presa di Kim Ki-duk filma senza apparentemente sforzarsi di dare un senso a ciò che riprende, come se esistesse una ragione profonda di tutto ciò che accade, una ragione che lo spettatore può cogliere solo su un piano diverso da quello della razionalità. Ecco che allora anche i personaggi non hanno motivazioni psicologiche esplicite, ma agiscono dei comportamenti, compiono delle azioni che trovano spiegazioni solo nel fatto di essere compiute.

E’ innegabile che cinema di Kim Ki-duk getti il suo spettatore in un profondo “disagio”: accadde con “L’isola”, accade con “Bad Guy”. La messa in scena di una realtà incomprensibile, introduce nel racconto elementi di instabilità non facilmente digeribili; e anche i personaggi di “Bad Guy”, come d’altronde quelli dei film precedenti, disperatamente fragili e violenti come sono, risultano inclassificabili nelle categorie tradizionali di bene e male, di bello e brutto: mettono in discussione i limiti di classe e di genere, i concetti di normalità e anormalità, ordine e disordine, così come il modo di raccontare di Kim conduce a una poco rassicurante perdita delle coordinate e dei punti di riferimento.

E come se non bastasse questo smarrimento, questo disagio, il cinema di Kim Ki-duk chiede al suo spettatore di fare i conti con personaggi crudeli, di una crudeltà niente affatto spettacolare ne compiaciuta, e forse per questo tanto più difficile da sopportare. La crudeltà del suo cinema è prima di tutto lo specchio di un’aspirazione a trovare un senso alla crudeltà di ciò che gli/ci sta intorno. “Bad Guy” è perciò innanzitutto è un grido disperato, e al tempo stesso un tentativo titanico di trasformare la difficoltà in possibilità, l’angoscia in pacificazione, la crudeltà in amore.

Quello del regista coreano è il cinema dei contrasti: duro e dolcissimo, lucido e folle, narrativo e a-narrativo, drammatico ed ironico, di pancia e di cuore insieme.

(Andrea Olivieri http://www.cinemadelsilenzio.it/)

L’ISOLA

Hee-Jin di giorno vende cibo e di notte il suo corpo. Un giorno sull’isola arriva un ex-poliziotto, Hyn-Shik che ha ucciso la sua fidanzata che gli era infedele. Tormentato dai rimorsi tenta di uccidersi ma Hee-Jin prima lo salvo poi lo seduce. Per Hyun-Shik fare sesso con lei diventa una sorta di droga per lenire la sofferenza del corpo e dell’anima.

I dialoghi ridotti all’essenziale sembrano trasmettere l’idea della vacuità della parola, di contro l’immagine estetica viene portata alle estreme conseguenze, si condensa e subito dopo si fa evanescente; è immagine e metafora, e solo le scene più drammatiche e violente sembrano ricondurci alla realtà.

“L’isola” è un film enigmatico, duro come la faccia chiusa a pugno del protagonista che quasi senza mai parlare e con un limitato repertorio di espressioni dà vita ad un interpretazione di rara intensità.

Un film nuovo, se non nello stile, almeno nell’universo e nell’immaginario che il giovane regista Kim Ki-duk (anche autore delle scenografie) riesce a ricreare. Un mondo unico e totalizzante, quello che viene mostrato, in cui la sopravvivenza, i bisogni umani e, soprattutto, l’amore tra un uomo e una donna, si riducono ad uno stadio embrionale e primitivo. Una metafora amara della solitudine dell’uomo contemporaneo al quale sembrano non bastare i mezzi di comunicazione per esprimere quel desiderio di amore che risulta, in ultimo, essere forse un disperato tentativo di rifugio.

Se la narrazione a un certo punto si fa un pò confusa, la forza delle immagini è più eloquente che mai, giocata tutta sul confine labile tra la morte (il fondo dell’acqua), e un vivere che è più un sopravvivere, un galleggiare (la superficie). E quelle inquadrature poste proprio là, con una trovata efficace, a metà dei due mondi, sembrano metterci in guardia e in attesa di un possibile galleggiamento o di un più probabile sprofondamento.

La fine, non solo quella della finzione cinematografica, giunge attesa e invocata per ritrovare un senso, un appiglio… in realtà è la distruzione stessa delle nostre certezze.

(Andrea Olivieri http://www.cinemadelsilenzio.it/)


Ultimo appuntamento della stagione!

DOMENICA UNCUT

– LA FINE –

DOMENICA 9 GIUGNO

Ore 18:30

CASOTTO

di Sergio Citti, 1977.

***

Ore 21:00

BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI

di Ettore Scola, 1976.

 

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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CASOTTO 67 casotto citti  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub
“Quel casotto chiamato umanità…”

Il Casotto che dà il titolo al film, altro non è che una cabina da spiaggia in cui varia umanità, tra cambi d’abito, pic nic, tresche, pennichelle e chiacchierate, si troverà a trascorrere parte di una giornata estiva. Ma il Casotto di Sergio Citti è anche un mondo, o meglio, una miniatura del nostro mondo che, attraverso personaggi atipici e divagazioni oniriche, ci mostra il malessere e l’ironia un po’ sfottente della vita reale.

Così, tra le quattro mura di legno nelle quali si ambienta quasi per intero il film, faremo la conoscenza di veri e propri tipi da spiaggia: un allenatore panzuto e vagamente dispotico con squadra di nuotatrici al seguito, un prete con una ‘‘strana’ malformazione al pene, due squattrinati benzinai romani freschi di rimorchio, una coppia di parrucchieri che vorrebbe usare il casotto per abbandonarsi all’atto sessuale, due militari culturisti gay, una famigliola scombiccherata e tanti altri.

Le varie storie che si intrecciano nel casotto a volte hanno un inizio, uno svolgimento e una fine; altre volte solo un inizio, o solo uno svolgimento; altre volte ancora sono delle semplici cornici tra un racconto e l’altro. Inoltre, in casi sporadici, assistiamo a storie che danno origine ad altre storie (come quella di Gigi e del suo sogno). Uno dei punti di forza di Casotto è, infatti, proprio la sua struttura: inimitabile poiché puramente istintiva, non curante delle regole e, quindi, magnificamente ‘‘ignorante’. Ma non dimentichiamo i meriti di un cast follemente assemblato, straniante quanto lo stesso film, capace di dare anima e corpo ad un’umanità popolaresca, a volte ingenua ma mai intellegibile fino in fondo. Poi, per carità, ci sarà pure qualche concessione di troppo alla ‘‘barzelletta’, ma contribuisce a rendere il piatto unico e ricco. Anche in questo, l’istinto domina. D’altronde, non è forse l’istinto a distinguere un artista da un mestierante? Tanto di cappello a Sergio Citti.

(Daniele ‘Danno’ Silipo http://www.bizzarrocinema.it/)

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BRUTTI, SPORCHI E CATTIVI 66 buoni sporchi cattivi ettore scola proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub
“I parenti non si scelgono”

Giacinto vive in una baraccopoli alla periferia di Roma, conserva gelosamente un bel gruzzolo difendendolo dalla numerosa famiglia che vive insieme a lui in una catapecchia.

Ettore Scola è un grande regista che in questo caso supera se stesso con un film durissimo, penetrante e tagliente come un rasoio. La bruttezza dei personaggi è pari all’aspetto estetico del luogo in cui sono costretti a sopravvivere. Non hanno principi morali, sono attaccatissimi ai beni materiali e trascorrono la vita a odiarsi a vicenda.

Impietosa l’immagine di un’altra Roma, molto diversa da quella a cui ci ha abituati un certo tipo di cinema molto più glamour. Non si può parlare esattamente di neorealismo in quanto siamo fuori periodo storico e in ogni caso ampi spazi vengono lasciati anche ad una certa vena caricaturale che allontana la vicenda dalla realtà più vera.

Grandissimo Nino Manfredi, praticamente irriconoscibile. Una prova monumentale che difficilmente potrebbe essere replicata da attori del nostro tempo. Non da meno i suoi comprimari per la maggior parte esordienti assoluti.

La speranza in questo film non è contemplata. Persino il finale con la ragazzina non ancora adolescente rimasta incinta (di qualche zio o parente) è un pugno nello stomaco che sembra voler dare la dimensione della ciclicità ad una vicenda e ad una società tristissima.

(http://scoiattoloviaggiante.blogspot.it/)

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2 Giugno: CLASSE 1984 // HARDWARE

DOMENICA UNCUT

Domenica 2 Giugno

Ore 18:30
CLASSE 1984

di Mark L. Lester, 1982.

***

Ore 21:00
HARDWARE

di Richard Stanley, 1990.

 

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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CLASSE 1984 64 Classe 1984 proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Classe 1984 uscì nelle sale creando scandalo per l’eccessiva dose di violenza ma anche per i contenuti antieducativi della storia, fece una fugace apparizione in vhs ma poi scomparve nell’oblio cinematografico facendo totalmente dimenticare di sè al punto che Mark L. Lester, il regista, ne preparò una versione protofantascientifica nel 1990, Class of 1999, in cui i violenti studenti erano dei robot killer. Ma gli studenti veri della scuola dove Perry King è professore di musica che si trasforma in giustiziere omicida ossessionato dallo scontro col teppista minorenne Stegman (uno splendido Timothy Van Patten in pura tenuta pre George Michael) fanno molta più paura e generano mille volte più angoscia di un cyborg; sono veri, sono il prototipo dell’americano arrivista, spacciatore e psicopatico di quegli anni.

Viene da pensare ad un’apologia fascista in cui l’insegnante tenta in tutti i modi di redimere le pecore nere arrivando al sacrificio d’Isacco pur di ottenere giustizia. Anche Roddy McDowall segue le sue orme e non esita a impugnare la pistola pur di insegnare biologia ai suoi studenti, ma con molto meno successo del suo collega che non esita a maciullare i teppisti pur di difendere la moglie Merrie Lynn Ross, pluristuprata, incinta e in pericolo di vita. Tuttavia il grasso del gruppo indossa la svastica sulla maglietta mentre il professore assomiglia ad un ex-hippy che deve affrontare il delirio degli anni 80, uno scontro generazionale che ormai è parte della storia.

Il film diventa quindi un documento importante di una precisa situazione epocale edulcorata dal politically correct e dal buonismo di facciata (nessuno può arrestare i giovani finchè sono minorenni) che hanno rovinato una gioventù altrimenti capace di espimere al massimo la sua creatività artistica (Stegman, il cattivo, è uno splendido pianista allo stesso modo in cui Alex di Arancia Meccanica è un estimatore di Beethoven). Un grande film da riscoprire per sempre con l’aggiunta di una delle prime interpretazioni di Michael J. Fox, in grado di rappresentare la faccia pulita dell’America Reaganiana di allora.

(Dottor Satana http://www.throughtheblackhole.com/)

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HARDWARE 65  Hardware proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Ci sono film che nascono sotto stelle ambigue, trascorrono i primi anni dalla loro uscita nel dimenticatoio, e quelli immediatamente successivi alla ricerca di una stabilità critica, rimbalzando impazziti da un’etichetta all’altra: trash o cult ? cult o trash ?
La pellicola di Stanley ne è esempio lampante. Nato dall’incontro tra un giovane regista, cresciuto a bacon, video clip e narrativa cyberpunk con gli ideatori di Shok, storia illustrata da McManus e O’Neill per la rivista 2000 AD, esce nel ’91, viene premiato nello stesso anno ad Avoriaz per i suoi effetti speciali e poi sparisce nel nulla.

Riprenderlo oggi, vuol dire dover fare i conti con la sua essenza a metà strada tra il cinema di maniera e apocalittiche previsioni future, ma il gioco vale la candela. Certo, la trovata iniziale della tecnologia che si rivolta contro i suoi ideatori puzza di muffa più del gorgonzola, ma una volta superato questo primo ostacolo, l’anima dell’opera prima di Stanley si manifesta in tutto il suo spessore. Hardware fotografa quel che resta del pianeta terra dopo una non meglio definita “Grande Guerra”: lande desolate in stile Ken il guerriero, rottami, piogge acide, ruggine e residuati tecnologici. Uno spassionato omaggio al western spaghetti dove tutto è stato convertito in hardware, è non c’è più la minima traccia di software. Ma Hardware va oltre i paesaggi post apocalittici e post umani, perché è presagio delle giocose faide combattute in rete, dove non si può trattare sullo spazio virtuale che si ha a disposizione, e dove ogni azione ha come scopo preciso l’eliminazione del nemico immaginario. La trama, la sceneggiatura, il soggetto stesso diventano pretesto per mettere in scena lo scontro tra due rivali: gli umani (Jill e Mo) contro Mark 13, “macchina della morte” ideata anni or sono dall’esercito, che viene involontariamente rianimata da una scultrice di ferraglia e, pur essendo stato a più riprese distrutto dalla coppia si rianima, risorge e continua a giocare, e lo fa in puro stile video ludico: si fa beffe del game over, perché ha già salvato la partita e può riprendere dal punto in cui era stato sconfitto, ma intanto ha recuperato energie e conosce le mosse dell’avversario.

Stilisticamente, il film di Stanley è un’affascinante concentrato di sovversiva sci–fi : gli esterni desertici e desolati assomigliano a quelli di Dune e Mad Max, mentre gli interni rimandano al caos organizzato di Brazil e Blade Runner; il montaggio convulso e la colonna sonora martellante (Iggy Pop, Motorhead, Ministry e Public Image) creano sequenze stranianti e mai scontate, ma è grazie alla sua sottotraccia simbolica che la pellicola raggiunge il suo dissacrante apogeo. Il nome del robot, Mark 13, rimanda al Vangelo secondo Marco, dove si legge che “la carne non sarà risparmiata”, il protagonista si chiama Mo (forse “Mosè” ?), le doghe profumano di torta alle mele, quel che resta del governo vieta la riproduzione, il cranio del robot si fregia della bandiera americana e quando viene erroneamente ristrutturato si ritrova con tanto di fallo perforante.
Non solo, Mark 13, è il programma definitivo, un tecnologico condensato di cavi, cip e alluminio programmato per estinguere in maniera violenta quel che resta del genere umano, un’invincibile macchina di morte che può essere sconfitta solo dall’acqua, elemento puro ma mai come in questo caso infetto e difficilmente reperibile, lo stesso che può mandare in tilt l’hardware del computer che ci controlla, ci spia, e allo stesso tempo è depositario e custode delle nostre attività e dei nostri segreti.

(Luca Lombardini http://www.positifcinema.it/)

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19 Maggio : LE ARMONIE DI WERCKMEISTER

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 19 MAGGIO

Ore 20:30

LE ARMONIE DI WERCKMEISTER

di Béla Tarr

(Werckmeister harmoniak, 2000, VO sott. in italiano)

Proiezione Gratuita

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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LE ARMONIE DI WERCKMEISTER 63 le armonie di werckmeister bela tarrproiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Girato in soli trentanove piani sequenza, “Le armonie di Werckmeister”, questa storia surreale e quietamente evocativa diretta da Bela Tarr, ci trascina armonicamente in un mondo apocalittico che si impregna della qualità nobilitante del bianco e nero e restituisce allo spettatore una visione corale ed estremamente misurata della conflittualità umana e della sua – purtroppo famosa – declinazione balcanica.

“Le armonie di Werckmeister” si ispira in primis ad un racconto dell’ungherese Laszlo Krasznahorkai: The melancholy of resistance, ma è anche guidato sul piano narrativo e poi sempre più in alto, fino al piano costruttivo e filosofico, dalle teorie del musicista barocco Andreas Werckmeister, che viene ricordato per il suo studio approfondito del sistema armonico accompagnato dalla radicata convinzione che la musica si legasse in maniera indissolubile alla creazione divina e alla sua perfezione.

Tarr costruisce dunque una complessa allegoria: in una città ungherese fredda e disgraziata, minacciata da un accadimento nefasto ed indefinito che poi prenderà la forma di una rivolta popolare, si consuma la semplice quotidianità del protagonista. L’apocalittica condizione prende una svolta inquietante quando un baraccone/circo ambulante si insedia nella piazza cittadina, forte della sua attrazione principale: una gigantesca balena accompagnata da uno strano essere deforme (il principe), che però non ci sarà concesso di vedere.

I piani simbolici si sovrappongono creando un’esperienza cinematografica complessa ma appagante. La balena potrebbe essere la rappresentazione concreta di un grande ideale, morto ma ancora in grado di influenzare la gente. Il principe è quella vocina inconscia che si agita dentro di noi, blasfema, a volte incomprensibile ma incessante: distruggi, conquista, usurpa, comanda.

Il regista ungherese ci propone anche una delle scene più forti e agghiaccianti che mi sia mai capitato di vedere: la distruzione di un ospedale e dei malati in esso ricoverati. La mattanza si consuma nel completo silenzio. Non un urlo, solo i colpi attutiti dei bastoni sui corpi inermi. Un vecchio, nudo e tremante ripreso frontalmente per pochi insostenibili attimi, calma gli animi e disperde gli aggressori.

La potenza rivelatoria dell’immagine, della musica, della metafora perfettamente armonizzate da Tarr in un’opera che ha l’inconsistenza di un’ombra ma la violenza catartica di un pugno, raggiunge livelli elevatissimi e ci lascia, infine, affascinati e confusi, a guardare dentro l’occhio vitreo di una balena pietrificata.

Matteo Ruzza (http://www.pellicolascaduta.it/)


Domenica 12 Maggio : ATTENBERG // CANICOLA

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 12 MAGGIo

Ore 18:30
ATTENBERG

di Athina Rachel Tsangari, Grecia, 2010
(VO sott. italiano)

****
Ore 21:00
CANICOLA (Hundstage)

di Ulrich Seidl, Austria, 2001

 

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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ATTENBERG 60 attenberg proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

È bastato un film come Dogtooth (2009) a far decollare, letteralmente fino agli Oscar, un ragazzone barbuto di nome Giorgos Lanthimos, e quindi a spalancare il sipario su una scena, quella greca, che dal punto di vista cinematografico negli ultimi 10-15 anni aveva lasciato Angelopoulos (e chi altri?) come unico esponente di rilievo. Così, al fianco del già citato Lanthimos qui nelle vesti di attore e produttore, a Venezia ’10 si è presentata tal Athina Rachel Tsangari, a sua volta produttrice dei film dell’amico Giorgos, che con questo Attenberg attira nuovamente curiosità, e penso anche stima, sul palcoscenico ellenico.

Attenberg è un’opera adibita alla provocazione che scivola volutamente su parodistiche macchie(tte) d’olio (l’incipit con le lezioni di bacio) mostrando indifferenza, noncuranza, nei confronti dello spettatore che si trova di fronte ad una recitazione con prosopopea, enfatizzata in ogni minimo gesto, straparlata (il pingpong lessicale col padre), snaturata (un dialogo che termina nell’imitazione di alcuni animali), decontestualizzata (perché fanno così? È la domanda che si ripropone più e più volte), il tutto porta ad una ridicolizzazione dei personaggi che però non si trasforma mai (MAI!) in comicità scherno o derisione poiché l’atmosfera sebbene ovattata da tali elementi è plumbea, e tale grevità oltre ad essere trasmessa dall’impianto industriale della cittadina (nei fatti Aspra Spitia, luogo natio della regista), è essenzialmente un fattore tecnico poiché la mano della Tsangari si fa algida con i suoi lenti e ammirevoli carrelli che seguono o precedono le due amiche.

Gli ambienti poi spiccano per le loro tonalità chiare lise sorprendentemente dalla ripresa frontale del padre moribondo nel buio della camera. A ciò si aggiungono sequenze che si prendono tempi del tutto propri, come la scena del petting tra l’ingegnere e Marina che si sofferma su strambi dettagli facilmente bypassabili da altri regist(r)i e annesso, pregevole, svelamento di campo, o i siparietti imperscrutabili (forse non troppo) tra le due ragazze che regalano, tra le altre cose, un long-take canterino memorabile (video).

In un paesaggio dipinto in modo quantomeno luna…tico, ecco che si palesa un essere, una forma di vita inerte: Marina, ipocentro post-adolescenziale, che racchiude in sé tutta quella caducità della non-vita: apatia, asessualità, abulia, amoralità, e rinchiusa, per suo volere, in un limbo lontano fatto di documentari televisivi. E vicino al burrone della morte paterna si trova a dover volare per non precipitare anch’essa. Le scapole, in fondo, non sono altro che delle ali mozzate.
Attenberg è qui, in questa scoperta di cosa c’è oltre il proprio mondo, oltre il proprio corpo, è l’imprevedibilità dell’incontro, di camminare senza un’amica affianco, è un percorso, è uscire allo scoperto, emanciparsi, liberarsi, non c’è nessun padre dispotico come in Kynodontas a intrappolare la vita di questa ragazza, la gabbia che la imprigiona se l’è costruita lei. Marina e il suo nido ripreso in un documentario sull’uomo.

Attenberg è crescita, e quelle lacrime trattenute a stento sulla barca da parte della protagonista ci fanno capire che sì, lei è cresciuta, e da quel campo lungo conclusivo può andare via da sola.

(Eraserhead http://pensieriframmentati.blogspot.it/)

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CANICOLA 60 canicola Ulrich Seidl proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub


La selezione del nuovo film di Seidl, Paradise: love per il concorso ufficiale della Mostra del cinema di Venezia, ci permette di recuperare e recensire il suo titolo più famoso, Canicola, vincitore proprio a Venezia nel 2001 del Gran premio della giuria. Un recupero che ci è parso necessario perché, ad undici anni dalla sua uscita resta probabilmente la sua opera più compiuta.

Nei sobborghi periferici di Vienna, agglomerati di villette residenziali tutte uguali, un’umanità variegata vive la propria vita ordinariamente inquietante, ma la canicola estiva rende l’ordinarietà ancor meno sopportabile, ed i personaggi arrancano, si dibattono ad un passo dall’esplosione psicotica. E’ davvero la canicola estiva la responsabile? Oppure qualcos’altro si annida, più in profondità, nella società austriaca contemporanea?

Seidl realizza un film corale, complesso non tanto nella struttura – un susseguirsi di sequenze sui vari personaggi inframmezzate da alcune inquadrature emblematiche, raffinate ed estremamente significative – quanto a causa della mancanza di una sceneggiatura forte che guidi lo spettatore, à la Altman, per intenderci (un elemento unificante è ciò che unisce le storie, qui la canicola, in Short cuts il pesticida lanciato dagli aerei, in Magnolia la pioggia di rane). Questa caratteristica ha fatto parlare di pseudo-documentario, ha sollevato accuse di pretesa anti-cinematograficità. Assurdo. Semplicemente, Seidl non è interessato a guidare lo spettatore servendosi della narratività classica, sceglie piuttosto uno stile che, nel distacco delle camere fisse e dei piani sequenza statici, pretende di mostrare – in tutta la loro spregevolezza – le azioni dei personaggi e soprattutto i loro corpi. Corpi appesantiti dagli anni e dall’eccesso di würstel, salsicce e birra, corpi cosparsi di olio abbronzante nella loro impietosa nudità

Cinico, in questo, Seidl usa il corpo e il basso corporeo come emblema del disgusto che noi, spettatori, dobbiamo provare nei confronti di questa umanità repellente: l’orgia nel locale di scambisti , i corpi di mezza età ammassati gli uni sugli (o dentro) gli altri, sino alla provocazione dell’uomo costretto a cantare l’inno austriaco con una candela accesa nell’ano.

Le scelte cromatiche, la saturazione dei colori, gli accostamenti cromatici esasperano il grottesco, il trash dei corpi flaccidi, decrepiti, obesi: un’esasperazione non dissimile da quella che – in un contesto e con finalità completamente diverse – operava John Waters in film come Grasso è bello o Polyester; medesimo meccanismo, ma finalità opposte: se là era l’esaltazione dell’outsider, della diversità anche fisica e sessuale, qui il corpo-trash appare in tutta la sua carica disgustosa e repellente.

Non meno importanti dei corpi, per lo scopo che Seidl si prefigge, sono i luoghi, o meglio i non-luoghi. Non solo le periferie sterminate, vero e proprio deserto nel quale le uniche oasi, punti di ristoro, sono centri commerciali, benzinai e parcheggi; non a caso in questi spazi si muove l’unico personaggio positivo del film, la ragazza folle ed innocente, sola ad essere davvero consapevole della follia consumistica, che ricorda a chi incontra con domande e osservazioni imbarazzanti: “siete grassi, ti si rizza ancora?”; eppure la incarna, inconsapevolmente, perché ha introiettato – probabilmente dalla televisione – classifiche di ogni cosa (le presentatrici più sexy, i migliori supermercati, le più diffuse cause di morte ecc.) e jingle pubblicitari. Questo è probabilmente ciò che, secondo Seidl, ci si deve aspettare dalla nuova generazione, cresciuta in queste condizioni.

Nelle periferie sterminate ci sono poi le abitazioni, rifugi quasi sempre bianchi, neutri e dotati di ogni comfort. Qui tutti sono a loro modo ossessionati dalla sicurezza, dai sistemi di allarme, dalle persiane elettriche, mentre in realtà pericolosi criminali da contrastare sono ragazzini che sfregiano le auto parcheggiate. Qui conducono le loro esistenze insignificanti, incuranti di ciò che gli accade attorno, tutti in un certo senso atomizzati, isolati, abbandonati, in edifici che sono spesso cantieri perenni. Seidl sceglie quasi sempre una composizione fotografica del quadro dal significato emblematico, spesso il primo fotogramma ha già esaurito la sequenza, in questo primato dell’immagine sul dialogo, sulla sceneggiatura si spengono le accuse di anti-cinematograficità.

Seidl non limita ad accodarsi, realizza invece un’opera provocatoria ma coerente, che porta alle estreme conseguenze la propria critica, con una forza inedita per il suo cinema, una forza che si è dispersa in Import/Export (2007) e che non era tale in Models (1999). Ora ci si attende dalla sua ambiziosa trilogia un trittico della stessa intensità, consapevoli delle difficoltà che un cinema come questo comporta anche per chi lo realizza, rischio soprattutto di fraintendimento e di una ricezione che si limiti alla provocazione superficiale, senza cogliere la violenza critica che tale provocazione nasconde.

(Cristoforo Severone http://www.pubblicopassaggio.it/)

 

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Domenica 5 Maggio : OCCHI SENZA VOLTO // THE FACE OF ANOTHER

DOMENICA UNCUT

Domenica 5 maggio

Ore 18:30
OCCHI SENZA VOLTO (Les yeux sans visage)

di Georges Franju, Francia, 1960.

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Ore 21:00
THE FACE OF ANOTHER (他人の顔 Tanin no kao)

di Hiroshi Teshigahara,Giappone, 1966.
(VO sott. in italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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OCCHI SENZA VOLTO 58 occhi senza volto Les yeux sans visage  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Un famoso e apprezzato chirurgo plastico sogna di ridare, con metodi poco consoni, il volto alla giovane figlia, i suoi tentativi non saranno coronati dal successo, e la ragazza non tarderà a vendicarsi del poco ortodosso genitore.

Ci sono pellicole che segnano un vero e proprio spartiacque per un genere cinematografico, precorrendo i tempi e rappresentando un modello da seguire per intere generazioni di cineasti. Occhi senza volto, per quel che vale, costituisce per il gotico europeo quello che King Kong rappresenta per il cinema d’avventura: una pietra miliare, un termine di paragone imprescindibile ed una fonte d’ispirazione fondamentale per chiunque abbia voluto cimentarsi con il genere negli anni successivi.

Quel che rende il film di Franju tanto importante, il motivo della sua consacrazione a “Totem” dell’horror europeo, è la cura quasi maniacale del dettaglio. Al di là del soggetto, già di per sé interessante, curioso ed originale, lo spettatore verrà rapito senza scampo da una fotografia incredibile (probabilmente uno dei B/N più belli della storia del cinema), un contrappunto musicale ambiguo, straniante e ossessivo e una sceneggiatura di ferro, curata da alcune delle menti più brillanti della letteratura Francese di genere del dopoguerra.

Fra richiami più o meno accennati all’espressionismo Tedesco e alle opere di Tourneur, citazioni e colpi di genio, quel che rimane è però l’essenza stessa del film, la domanda che ci porterà fin sulle soglie del finale catartico voluto da Franju, quasi uno studio sull’ambiguità dell’uomo nella sua forma più estrema e pericolosa: dove finisce l’amore di un padre e comincia un macabro gioco fra la vita e la morte?

(Enrico Costantino http://www.bizzarrocinema.it/)

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THE FACE OF ANOTHER 59  THE FACE OF ANOTHER  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

A causa di un incidente sul lavoro Okuyama rimane irriducibilmente ustionato, costringendolo a portare delle bende su tutto il volto. Alienato e senza più un viso, con l’appoggio del suo psichiatra Hari indossa una maschera realistica all’insaputa di tutti. Dove lo porterà la maschera? Ora che ha un volto può definirsi qualcuno?

In The Face of Another c’è tutta un’analisi profonda sulle implicazioni psicologiche e filosofiche di avere o non avere un volto. Uno spazio di pelle di pochi centimetri sopra il collo è fondamentale all’uomo. Un volto può infatti essere la prova della propria esistenza e identità, uno strumento di comunicazione delle proprie emozioni e di connessione con i propri simili, di mediazione tra la mente dietro di esso e il mondo di fronte. Il film si concentra su come l’incidente che lascia Okuyama (Nakadai Tatsuya) privo d’identità ma per il resto illeso, modifica profondamente i rapporti con tutti i suoi conoscenti. Come si siede in poltrona a casa sua, con la faccia bendata, sua moglie è tesa e nervosa in sua presenza, impossibilitata a scrutargli le espressioni, mentre il suo capo (Okada Eiji) non riesce ad affrontarlo in piedi nel suo ufficio.
In The Face of Another lo spettatore scorre sotto gli occhi la metamorfosi psichica e fisica di Okuyama nonostante il ritmo lento e i lunghi dialoghi. La trasformazione del protagonista è ben visibile nei rapporti con la moglie, lo psichiatra e la sua assistente.

La storia principale è intervallata da quella di Irie, (assente nel romanzo) una giovane e bella ragazza sfigurata per metà del suo viso a causa della bomba atomica (deducibile quando ricorda l’infanzia a Nagasaki). La storia parallela, stavolta è una donna dal volto rovinato, rappresenta senz’altro una narrazione alternativa.

Oltre all’analisi sulla natura dell’identità e del suo riflettersi sulla società, The Face of Another vanta una bellissima regia, con inquadrature insolite e la partecipazione di Takemitsu Tōru alla colonna sonora e Segawa Hiroshi come direttore della fotografia. Memorabili le scene girate all’interno della clinica psichiatrica, in cui i protagonisti si aggirano in spazi divisi tra vetri e pareti riflettenti e cambi di luci. Nakadai Tatsuya che interpreta magistralmente Okuyama è in ottima forma, assistito dall’altrettanto brava Kyō Machiko, in prestito dalla Daiei, nei panni della moglie e dallo psichiatra Hira Mikijirō.

Ingiustamente poco conosciuto dal grande pubblico The Face of Another è un vero pezzo di cinema.

(Picchi http://www.asianworld.it/)

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[28 Aprile] THE CHILDREN // EDEN LAKE

DOMENICA UNCUT

Domenica 28 APRILE

Ore 18:30

THE CHILDREN

Tom Shankland, 2008.
(VO sott. in italiano)

***
Ore 21:30

EDEN LAKE

James Watkins, 2008.
(VO sott. in italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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THE CHILDREN 56 the children proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Il parto, e ancor più il taglio del cordone ombelicale, segna il distacco materiale di una madre dal proprio figlio, la rottura di un legame talmente viscerale da lasciare una ferita profonda. Una ferita che, seppure rimarginata, continua a sanguinare. Non potrebbe essere diversamente, trattandosi di sangue del proprio sangue, carne della propria carne. Ed è proprio nella carne e nel sangue che Tom Shankland, regista inglese già autore dei corti Bait e Going Down, imprime gli atti del suo cruento dramma familiare.

La tensione cresce lenta, graduale, attraverso l’introduzione di semplici elementi che rompono la quiete iniziale, come una parola detta al momento sbagliato o lo sguardo di sfida lanciato dalla figlia adolescente al proprio genitore. Brevi attimi che incrinano la serenità di una famiglia riunita per le vacanze di Natale, corpi estranei (come il fotogramma che anticipa uno dei momenti più rappresentativi della pellicola, inserito più di una volta tra una sequenza e l’altra), quindi virus. Sembra proprio essere un virus infatti il responsabile dell’improvvisa violenza che i bambini della casa riversano sui propri familiari, sui propri genitori. Un virus che come tale si trasmette da individuo a individuo, colpendo però soltanto i più piccoli, che diventano così nemici dei più grandi.

Da un lato la violenza sottile degli adulti, fatta di verbali frecciatine fra sorelle, di accenni a vecchi rancori, tenuti sempre sotto controllo; dall’altro quella esplicita, spietata, dei bambini. Come una macchia d’olio la malattia dilaga, espandendosi dal centro (la casa), verso l’esterno (il bosco), per poi scavare dal di dentro, destabilizzando e portando alla distruzione ciascun nucleo familiare, facendo rivoltare i mariti contro le mogli, così come fratelli contro sorelle. Cominciata come un’inusuale guerra tra le due fazioni contrapposte di genitori e figli, il conflitto si trasforma, diventando caotico e disordinato, in un continuo scambio di ruoli fra vittima e carnefice, in cui chiunque è colpevole.

Girato in pochissimo spazio, una casa e lo spiazzo antistante (il bosco funziona più come zona di confine, soglia oltre la quale non conviene spingersi), The Children, al di là delle tematiche (la ribellione dei figli contro i genitori) e degli effetti visivi (il sangue che si versa sulla neve) che potrebbero sembrare non troppo originali, procede spedito, capace in più di un’occasione di colpire con un’unica immagine, al culmine della tensione.

(Giovanna Canta http://www.sentieriselvaggi.it/)

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EDEN LAKE 57 eden lake proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Si sente ancora il bisogno di un’ennesima variazione sul tema “giovani sprovveduti vanno a farsi un weekend bucolico e lì le cose SI FANNO BRUTTE”? Apparentemente sì, se in mezzo ci sono gradite sorprese come questo Eden Lake.

Eden Lake vive di vita propria, riflettendo su un problema di scottante attualità nel Regno Unito, cioè l’emergenza sociale, spesso cavalcata dai media reazionari, di una gioventù lasciata crescere allo sbando e che trova la sua espressione nella sottocultura

Eden Lake, però, fa un passo più in là dando delle personalità – come individui ma soprattutto come gruppo – ai ragazzini-carnefici che perseguitano la coppietta. Dal loro punto di vista, l’aggressione non è immotivata; e Watkins mostra abbastanza del background sociale in cui sono cresciuti da dirci che il male deve pur sempre affondare le proprie radici in un qualche tipo di terreno. Normalmente sbuffo di fronte all’esigenza moderna di giustificare qualsiasi devianza con un po’ di psicologia spicciola (di solito, “ha avuto un’infanzia difficile” la sfanga un po’ per tutto), ma mostrare il vuoto di valori in cui sono cresciuti i ragazzi non toglie nemmeno un grammo di sgradevolezza a ciò che loro (e ancora di più i loro genitori) fanno.

Ci va anche di mezzo la lotta di classe, tema sempreverde del cinema britannico: la jeep di Steve, la sua attrezzatura da campeggio nuova di zecca, lo rendono automaticamente colpevole agli occhi della gang di campagna, che alla sofisticazione dei turisti cittadini oppongono la legge della forza. Il ricatto che Brett (il capo della gang) impone ai suoi amici viene da lui presentato come una prova di mascolinità, un rito di passaggio in cui occorre versare del sangue. L’unica esente è Paige, la sua fidanzatina, che però ha il compito di documentare tutto, in un ruolo passivo-aggressivo; il suo potere sta tutto nel detenere il materiale ricattatorio. Anche perché Paige, per il resto, è indistinguibile dai suoi coetanei maschi, pressoché asessuata.

E quindi, ovviamente, se la forza distruttrice è maschile, abbiamo una final girl. Jenny comincia maestrina alla Julie Andrews, materna e conciliante (è sempre lei a richiamare Steve alla prudenza), e attraverso il film è costretta a una trasformazione brutale. Una discesa nel proprio stesso cuore di tenebra, esplicitata da un’inquadratura che la accomuna al Willard di Apocalypse Now. Mi è venuto in mente anche il francese Vertige, un altro film recente dove la vittima-preda, per sopravvivere, deve attingere alla stessa brutalità ferina del villain, deumanizzandosi almeno temporaneamente. Ma la differenza sta nel fatto che il nemico, in Eden Lake, non è l’”altro”; non è un subumano frutto di generazioni di incesti, né un figlio delle sconosciute, violente (soprattutto per noi europei occidentali) terre dell’Est Europa. I mostri di Eden Lake sono frutto della stessa società in cui Steve e Jenny vivono; sono, in potenza, i loro stessi figli o la versione un po’ più grande dei bambini adorabili di cui si occupa Jenny all’asilo. E quindi le conseguenze dello scontro sono molto più pesanti per entrambi.

Insomma, se da una parte Eden Lake pone le fondamenta in un’infinita teoria di orrori che si annidano tra i boschi (o nelle aride praterie del Texas), e procede con un ritmo serrato senza autocompiacimenti d’autore, dall’altra oggi trova compagnia in film realisti come Fish Tank o in corti come Crossbow, che è australiano ma racconta di un panorama sociale molto vicino a quello inglese.

E qui sono dieci minuti buoni che penso a una chiosa che riassuma argutamente il senso di quanto ho detto, ma la realtà è che appena ho finito di vedere il film ho sentito l’impulso di uscire a fumarmi una sigaretta per stemperare la tensione, e quel senso di “BRUTTO, BRUTTO MONDO” che mi era rimasto addosso.

E non sono mica sicura di esserci riuscita.

(estratto da http://bidonica.wordpress.com/)

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21 Aprile NABOER // DREAM HOME

DOMENICA UNCUT

Domenica 21 Aprile

Ore 18:30
NABOER

di Pål Sletaune, 2005.

(VO. Sott. italiano)

***

Ore 21:00
DREAM HOME

di Ho-Cheung Pang, 2010

(VO. Sott. italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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NABOER 54 naboer proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub_Sparkly

Mai giocare con il fuoco, perché ci si brucia. In questa sua quinta pellicola il norvegese Pål Sletaune, considerato dalla critica uno dei registi più promettenti del panorama mondiale, scoperchia all’improvviso il famoso “vaso di pandora” che sarebbe bene tenere sempre chiuso. E quello che esce, è putrido (come l’odore acre che si sente nell’appartamento di John) folle (le sue continue allucinazioni) e violento (come i pugni che si alternano al sesso con la sua vicina Kim).

John è scovolto dall’abbandono della sua ragazza, ma quell’aria inquietante di indifferenza che ha sul viso serve solo a celare i primi sintomi dell’allucinazione, del delirio e infine della pazzia. Mostri che John rigetta all’esterno, immaginando che la violenza bruta che sente dentro non sia la sua ma quella di una giovane e sadica vicina di casa, che lo costringe a partecipare a una seduta erotica masochistica, un incontro di boxe su un divanetto d’entrata. Ma chi è Kim, in realtà? Cosa si nasconde nella casa labirintica in cui lei abita, assieme alla sorella, tra stanze sudice zeppe di oggetti inutili gettati alla rinfusa?

Naboer potrebbe essere definito un film a tratti “pulp”, ma anche un dramma psicologico e un thriller erotico politicamente e umanamente scorretto, dove il sangue e il sesso sono la chiave per capire l’origine della follia. Ma è anche una pellicola capace di mostrare fino a dove si può arrivare per amore. Si può amare anche fino alla pazzia e uccidere. L’amore non è sempre un sentimento pulito ed edificante, si può trasformare, e Sletaune lo dimostra, in un folle scenario di violenza e delirio dove con il patner si condivide tutto il marcio che si ha dentro. Per John infatti l’amore è un sentimento sporco, che procura piacere solo se uno dei due amanti ne esce “bruciato” e ferito. Il sesso è violenza crudele e l’eccitazione una pratica che si alterna ai pugni scagliati con violenza sul viso. Il sangue che esce dalle ferite uno stimolo vampiresco che crea assuefazione.

Naboer è anche un “viaggio all’inferno” rimbaudiano, dove le azioni dell’uomo possono toccare la perversione più assoluta: ma se per il poeta francese il ’battello ebbro’ portava all’illuminazione, per John è il biglietto di sola andata per un manicomio criminale.

(Silvia Vincis http://www.nonsolocinema.com/)

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DREAM HOME 55 DREAM HOME proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub_Antonio

“La casa è un diritto?

La forsennata corsa ad ostacoli di una giovane donna capace di tutto pur di ottenere la casa dei suoi sogni (con vista mare). Il film è anche un omaggio, solenne e allo stesso tempo psicotico, alla città di Hong Kong, ai suoi palazzi, alle sue case, ai suoi appartamenti minuscoli destinati a rimanere per molti giovani single mete irraggiungibili visti i prezzi altissimi di tutto il settore immobiliare!”

Ferocissimo thriller/horror, datato 2010, proveniente da Hong Kong che incastra, in una struttura da slasher, tematiche sociali di notevole spessore ed attualità. Nella fattispecie, si parla del boom edilizio che ha investito Hong Kong e dei prezzi vertiginosi che hanno acquistato gli immobili, spesso fortemente in squilibrio con l’effettivo tenore di vita dei cittadini. Ed è proprio il sogno della bella Cheng, umile addetta al call center di un’assicurazione, poter acquistare una casa con vista sul mare. E pur di non infrangere il suo sogno, la ragazza è disposta a fare di tutto…anche a far scorrere fiumi di sangue. Dotato di una struttura a flashback , che svela progressivamente le motivazioni dell’assassino, “Dream Home” si segnala come bizzarro splatter d’autore, dotato di una cura tecnica molto elevata che va di pari passo con la larvata critica al sistema politico-economico-sociale di Hong Kong. Originale nello spunto, non sempre omogeneo nello sviluppo ma dotato di grande impatto visivo e di un equilibrio (talvolta faticoso) fra violenza estrema e humor nero, il film è ben diretto da Pang Ho-Cheung che, oltretutto, non è nuovo a film dalla scottante tematica sociale.

La pellicola mette in scena personaggi fallimentari, schiacciati da un sistema impietoso ed accecato dal denaro, resi abulici da una totale mancanza di prospettive e da un materialismo incarnito nell’animo. Infine impossibile non segnalare gli omicidi che si susseguono nel corso della vicenda, particolarmente efferati ed elaborati visivamente, che annoverano coltellate, ferri da stiro in volto, stecche di legno acuminate infilate in posti improbabili, sventramenti e tutta una serie di altre cattiverie indicibili.

Esperienza visiva da provare.

(http://www.alexvisani.com/)

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[14 APR] Mika Kaurismäki

DOMENICA UNCUT

Domenica 14 APRILE

Ore 18:30

ZOMBIE AND THE GHOST TRAIN

di Mika Kaurismäki,Finlandia, 1991.

(VO sott. in italiano)

***

Ore 21:30

ROSSO

di Mika Kaurismäki, Finlandia, 1985.

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
http://kinesistradate.wordpress.com/

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ZOMBIE AND THE GHOST TRAIN

ZOMBIE AND THE GHOST TRAIN

ZOMBIE AND THE GHOST TRAIN

Un mese nella vita di Antti, detto Zombie, congedato per infermità mentale dalla leva e dedito all’alcol e al basso elettrico. L’amico Harri gli offre l’opportunità di suonare nella sua avviata band: per coglierla, però, Zombie dovrà lasciare la bottiglia.

Chissà se Sorrentino ha mai visto questo semisconosciuto — quantomeno in Italia — film di Mika Kaurismaki, il cui protagonista è pressochè identico a quello messo in scena dal regista italiano per il suo This must be the place (2011). Ma Zombie, a differenza del personaggio che interpretà vent’anni più tardi Sean Penn, è tutt’altro che uno sprovveduto o un ritardato: lui la sa lunga e certo più di tutti quelli che lo circondano, è piuttosto un ragazzo che non vuole in alcun modo diventare adulto e che preferisce passare per squilibrato piuttosto che eseguire gli ordini altrui (l’episodio iniziale del servizio militare è emblematico del suo carattere ribelle per natura).

Un antieroe alcolizzato e innamorato del rock and roll: sembra un film di Aki, invece è di Mika, fratello maggiore del Kaurismaki che due anni prima aveva diretto Leningrad Cowboys go America, prima pellicola in cui compare, nella band del titolo, Silu Seppala, ovvero Zombie, il cui vero nome è in realtà Antti: sia per il personaggio della finzione (Zombie) che per l’attore (Silu). A confermare la vena in stile Aki, ecco inoltre che Mika utilizza come co-protagonista l’attore feticcio, favorito e grande amico del fratello minore: Matti Pellonpaa, qui meno lunatico del solito, in un ruolo di contrasto a quello del personaggio centrale. Il regista si occupa anche del montaggio, della produzione e della sceneggiatura (insieme a Pauli Pentti e a Sakke Jarvenpaa), mentre la fotografia è affidata a Olli Varja, al fianco di Mika fin dai suoi esordi.

La storia di Zombie è una piccola fiaba moderna, surreale quanto basta e laconica in una maniera tutta scandinava, perennemente alla ricerca di una sensazione più che di una morale, di un coinvolgimento emotivo anzichè di una stretta coerenza della trama.

(http://cinerepublic.filmtv.it/)

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ROSSO

ROSSO

ROSSO

Giancarlo Rosso (un grande Kari Väänänen, anche co-sceneggiatore) è un sicario della mafia, al quale viene assegnato l’incarico di uccidere una donna finlandese, che incidentalmente era una volta la sua donna. Riluttante, Rosso, parte dalla Sicilia per l’estremo Nord della tundra e della campagna finlandese, alla ricerca del suo obiettivo, Marja (Leena Harjupatana). Insieme al fratello di Marja, Martti (Martti Syrjä, il cantante degli Eppu Normaali), parte con una una vecchia macchina per ritrovarla, in un viaggio che non mancherà di rapine e fughe. Fra una citazione e l’altra della Divina Commedia, Rosso raggiungerà il suo destino.

Quinto lungometraggio di Mika Kaurismäki, è una commedia, che di divino ha ben poco. Qui i piedi sono ben saldi a terra. Un bel road-movie, attraverso le lande desolate del nord della Finlandia, Il film è recitato quasi interamente in italiano (eh si, Kari Väänänen recita in italiano, cavandosela anche egregiamente.

(http://www.asianworld.it/)

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07aprile

DOMENICA UNCUT

Ore 18:30

FUNUKE SHOW SOME LOVE, YOU LOSERS!

di Daihachi Yoshida, 2007.
(VO Sott. in italiano)

***
Ore 21:30

SURVIVE STYLE 5+

di Gen Sekiguchi,Japan, 2004.
(VO Sott. in italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
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SURVIVE STYLE 5+ 40  SURVIVE STYLE 5+  Gen Sekiguchi film  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Sopravvivere alla follia di Sekuguchi, moltiplicata per cinque

Primo lungometraggio dell’enfant prodige Sekiguchi che, in beffa all’atteso esordio, costruisce un film che in sostanza amalgama coerentemente cinque storie brevi di quotidiana assurdità. La poetica originale e divertita dei passati cortometraggi è riproposta con totale fedeltà, confermando così l’abilità di un regista che riesce a conciliare una spiccata sensibilità figurativa con un gusto narrativo accurato, perennemente sospeso sul filo del grottesco.

Cinque storie di ordinaria follia: un uomo che durante tutto il film uccide continuamente la moglie, la seppellisce nel bosco e tornato a casa la ritrova viva e vegeta. Un trio di ladri, due dei quali si scoprono gay. Un uomo che, portando la famiglia ad uno show, viene ipnotizzato irrimediabilmente e crederà di essere un uccello. Un pubblicitario che passa il tempo a immaginare bizzarre scenette per i suoi spot. E per concludere, due assassini di professione.

Il fedele sceneggiatore Taku Tada disegna, è il caso di dirlo, una rosa di personaggi davvero originali e curiosi, caratterizzati da ossessioni e debolezze fondamentalmente umane, che nonostante la propria natura dai contorni fumettistici permettono allo spettatore un’identificazione diretta, complice di sventure e situazioni dai risvolti imprevedibili. Sekiguchi lavora sul resto con una messa in scena di rara sensibilità cinefila, che attinge esplicitamente al rigore di Kubrick passando per i cromatismi esagerati del primo Almodovar; dai ridondanti dettagli scenografici di Wes Anderson all’ironia pop di John Waters. Il risultato, seppure fiaccato da un’evidente prolissità nella seconda parte, è intrigante ed appassionato: sembra di assistere ad un reboot apocrifo di Pulp Fiction, impreziosito di goliardia e depauperato dei dialoghi illuminati di Tarantino.

Di autentica genialità i caroselli visionari della commercial executive Yoko (la bravissima Kyôko Koizumi), perle di istantanea bizzarria che irrompono nelle già folli vicende dei cinque protagonisti. Un’opera di innegabile valore, tra le più fresche e riuscite nella recente produzione nipponica, che lascia ben sperare in un giovane regista talentuoso e, cosa affatto scontata, genuinamente originale.

(Jacopo Coccia  http://www.bizzarrocinema.it/)

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FUNUKE SHOW SOME LOVE, YOU LOSERS! 41  FUNUKE SHOW SOME LOVE YOU LOSERS! i Daihachi Yoshidai film  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

L’antefatto di Funuke ci colloca subito nei paraggi della commedia nera. L’opera prima di Yoshida Daihachi, ispirata al romanzo di Motoya Yukiko esordisce in una splendida giornata di sole di una magnifica zona rurale in piena estate.

Una ragazza sta aspettando il bus, la strada è un nastro grigio d’asfalto che si snoda in mezzo ai prati verdi ed è ancora vuota. Sulla carreggiata, un gatto nero. La corriera che sopraggiunge cerca di schivarlo, uscendo di strada, il gatto lascia della strisce rosse di carne e sangue sulla strada grigia vuota.
La ragazza è la liceale Wago Kiyomi e i suoi genitori sono morti nell’incidente. Per il funerale la famiglia intera si riunisce. Kiyomi vive col fratello Shinji e la moglie dolcemente svagata, che lui maltratta senza che lei reagisca. Arriva da Tokyo anche la sorella maggiore Sumika (Sato Eriko), attrice bellissima.

A poco a poco si svelano i retroscena terribili del rapporto tra i tre fratelli Wago. Sumika è andata via di casa, senza il consenso del padre, che ha quasi cercato di uccidere, e dopo aver sedotto Shinji si è prostituita per racimolare la somma necessaria a fuggire in città. Kiyomi, appena quattordicenne, ha visto tutto, ha creato un manga sulla storia della malvagia sorella, vincendo anche un premio e rovinandone la reputazione nel piccolo villaggio. Kiyomi spia tutto quello che accade e possiede un talento straordinario, non meno della cattiveria della sorella, per trasferire sulla pagina la vita reale e le tragedie che la circondano. La meschinità e la mancanza di remore di Sumika diventano nutrimento e ispirazione per la matita di Kiyomi, che non può trattenersi dal disegnare. Kiyomi non è meno colpevole della sorella maggiore, e sopporta remissiva e docile le angherie di Sumika, che sta quasi per ucciderla con un bagno bollente e la costringe a recitare di fronte a parenti e amici le sue lodi fino allo sfinimento. Il lato sicuramente più interessante però del film è che la vicenda di conflitti familiari è arricchita dal contrasto tra due ambienti, uno concreto ben descritto, quella del pacifico e quieto paesino rurale e quello della grande città solo suggerito attraverso i flashback e le lettere al regista scritte da Sumika. Il regista crea un efficace contrapposizione tra l’apparenza placida e splendida della campagna e i marci e riprovevoli retroscena che in questa realtà, che dovrebbe essere rassicurante, si celano.

Spettacolare e un po’ troppo calcato e ad effetto in alcuni momenti, il film si snoda comunque con padronanza, e definisce comunque in modo adeguato le psicologie e i temi che affronta.

(Cecilia Collaoni http://www.asianfeast.org/)

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31 Marzo – FULCI LIVES!

DOMENICA UNCUT

FULCI LIVES!

LA TRILOGIA DELLA MORTE

Nel giorno di Pasqua, tripla proiezione per

ricordare e festeggiare il maestro Lucio Fulci.

Ore 18:30
Paura nella città dei morti viventi (1980)

Ore 21:00
…E tu vivrai nel terrore! L’aldilà (1981)

Ore 23:00
Quella villa accanto al cimitero (1981)

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PROIEZIONI GRATUITE
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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
http://kinesistradate.wordpress.com/
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LUCIO FULCI Fulci Lives 1 domenica uncut proiezione varese
(Roma, 17 giugno 1927 – Roma, 13 marzo 1996)

Se il peggio che possa capitare a un genio è quello di essere compreso, quella del dottor Lucio Fulci, trasteverino papà dell’horror all’amatriciana, artista maledetto per partito preso e burbero per vocazione, fu una vita fortunana. Forse. «Io so’ come i macchiaioli, sputtanati dai manieristi toscani solo perché dipingevano sulle scatole dei sigari; poi però loro so’ rimasti, i manieristi spariti», chiosava, dopo il successo di pubblico dei suoi film trucidi e vischiosi. Strano come certi epitaffi dimostrino che le virtù acquisite colla morte abbiano effetto retroattivo. A Fulci noi volevamo bene; come cronisti di cinema eravamo tra gli ultimi ad averlo intervistato, prima per La Voce di Montanelli («Salutami Indro, chissà se si ricorda di me…», borbottava), poi per Il Giornale. Erano anni in cui il cinecritico Gianni Canova aveva già provveduto a rivalutarlo, e la regista Antonietta De Lillo girava i festival con un corto che era una sorta di soliloquio-testamento del regista: Lucio, a riguardarselo, gongolava come un bambino: « ‘a Spe’, ce l’ho fatta – ci sorrideva – manno fatto ‘un film e nun zo’ ancora morto…».

Tipo curioso, Fulci: barbaccia ispida e sguardo incazzoso si trascinava sulle stampelle, ringhiando come quei vecchi bucanieri dei romanzi di Stevenson. La vita lo aveva mazzuolato ben bene: grossi problemi familiari, il livore attanagliante dei critici cinematografici, la salute che se ne andava lentamente, a piccoli passi, come Ingrid Bergman nel finale strappalacrime di Casablanca, che il buon Lucio non aveva mai considerato un granché. Più che le sue opere, è la sua parabola personale a sbalordire. Già laureato in medicina Fulci si iscrive al Centro Sperimentale di cinematografia. Per gioco. All’esame finale fissa spudoratamente Luchino Visconti: «Scusi dotto’, mo je elenco tutte le inquadrature che lei s’è fregato da Renoir». Promosso col massimo dei voti. Ma non si butta subito nel cinema. Transita prima nella critica d’arte discettando d’impressionismo e buone letture con Umberto Saba e Vitaliano Brancati. Tenta di fare il giornalista musicale, coll’unico privilegio di farsi spennare a dadi da Ella Fiztgerald nel backstage di un concerto romano.

Fulci era un raro esempio di cinematografaro a 360°, di “terrorista di generi”, (nel senso che entrava in un genere, lo sfondava e passava al successivo); negli anni ’50 scrive melodrammoni tipo Schiava del peccato e s’inventa commedie come Ci troviamo in galleria, Totò all’inferno. Come aiuto regista sempre di Steno ne L’uomo la bestia e la virtù riesce al tempo stesso a: perdere l’amicizia di Totò che l’aveva accusato di una tentata tresca con la compagna Franca Faldini; a passare le nottate sul tavolo da poker con Peter Lorre e John Huston; ad ubriacarsi con Orson Welles al quale insegna il romanesco, ricevendo in cambio la confidenza di essere sull’orlo del baratro “per colpa di quel mignottone di Rita Hayworth”. Da regista, Fulci fa di peggio. Lancia un certo Adriano Celentano, rispolvera col western la stella appannata di Franco Nero, dà lavoro al giovane esperto di effetti speciali Carlo Rambaldi (in seguito premio Oscar con Spielberg) e fiducia a un paio di caratteristi che i produttori avevano marchiato solo come macchiette da avanspettacolo. Si chiamano Franchi & Ingrassia. Fulci fu, senz’ombra di dubbio, uno dei registi più censurati d’Italia. Lo boicottavano per primi i produttori. Lo boicottavano perfino gli attori. Per non parlare poi degli uomini politici.

(Francesco Specchia – http://www.nocturno.it/)

Fulci Lives 2 domenica uncut proiezione varese

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Paura nella città dei morti viventi

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Il film più truculento di Fulci e forse l’unico in grado di competere a livello visionario con “L’Aldilà”. La scena iniziale nella quale si assiste al suicidio del prete è memorabile e splendidamente fotografata. Per non parlare della scena in cui la ragazza sepolta viva si sveglia e prende coscienza della sua disperata situazione: un gioiello di tecnica,suspance ed angoscia mescolate sapientemente. Forse una delle più belle scene girate da Fulci. Per quanto riguarda il settore splatter..bhè..è un vero massacro..Michele Soavi (che fa una comparsata) fa una finaccia assai orrida ed addirittura in una sequenza una ragazza rigetta dalla bocca le sue interiora!!!

Un MUST !!!

(http://www.alexvisani.com/)

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…E tu vivrai nel terrore! L’aldilà

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Visionario, allucinato, macabro, usa la telecamera come un occhio spettrale che guarda i personaggi vagare fra incubi, zombi e fiumi di sangue. Alto il livello di splatter , con alcune scene memorabili (più volte verrà imitata in vari horror d’oltreoceano, la sequenza dei ragni che divorano uno sfortunato Michele Mirabella) e decisamente validi gli effetti speciali curati da Giannetto De Rossi. Nonostante il basso budget, l’atmosfera che si respira è estremamente cupa ed efficace, grazie anche all’eccellente lavoro svolto da Sergio Salvati come direttore della fotografia.Il finale di pellicola e’ quanto di piu’ vicino possa esistere ad un quadro apocalittico e le musiche di Fabio Frizzi, commentano tutto il film con pezzi enfatici e macabre litanie .

“L’Aldilà” resta un gioiello dell’orrore sospeso fra macabra poetica e violentissima carnalità.

(http://www.alexvisani.com/)

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Quella villa accanto al cimitero

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L’ultimo dei grandi horror di Lucio Fulci torna ad affondare nella materia, dopo le incursioni astratte di Paura nella città dei morti viventi e L’aldilà…

Quella villa… – Fulci lo riconosceva – è il film più inquietante e spaventoso del ciclo proprio per questo, a causa cioè del convergere di paure basse, viscerali, ctonie – il mostro acquattato nel buio della cantina, pronto a ghermire e a fare male, tagliando, lacerando, compiendo impossibili operazioni chirurgiche – e di angosce mentali, rarefatte e impalpabili, come i fantasmi che alla fine sottraggono il bambino a Freudstein per condurlo con sé chissà dove. Sul nome dell’orco, Freudstein (questo era il titolo con cui il film venne inizialmente annunciato), che sembra indossare una casacca da soldato nordista, col volto da insetto e il corpo farcito di pus e vermi, né più né meno come il prete maledetto di Paura, Stephen Thrower nel suo libro Beyond Terror parte per la tangente, tirando in ballo complesse costruzioni psicanalitiche ancora più terrificanti del plot di Dardano Sacchetti.

Uno specimen? «Quali possibili connessioni esistono tra queste due figure (Freud e Frankenstein, che comporrebbero il nome del mostro, ndr)? Una è esistita realmente e ha indagato la verità attraverso i fantasmi dell’immaginario. L’ altra era inventata e divenne una delle metafore basilari della hybris senza Dio del ventesimo secolo. In qualche modo esse si rincorrono l’una con l’altra. Le teorie di Freud sul complesso di Edipo trasferiscono le relazioni tra padre e figlio in quelle tra mostro e avversario.
Frankestein è il padre il cui desiderio di sostituirsi a Dio sfocia nella creazione di un mostruoso figlio…».

(Estratto della recensione di Davide Pulici http://www.nocturno.it/)

 


14 Marzo : MANGIA IL RICCO / JOHN DIES AT THE END

DOMENICA UNCUT

Domenica 24 Marzo

Ore 18:30
MANGIA IL RICCO

di Peter Richardson, 1987.

Ore 21:00
JOHN DIES AT THE END

di Don Coscarelli,2012.
(VO. Sott. in italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
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49 mangia il ricco eat the rich proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

 

 

 

MANGIA IL RICCO

Alex è un cameriere di colore e lavora in un ristorante di lusso a Londra. Per una inezia viene cacciato e si trova così senza un soldo e senza lavoro. Alex medita vendetta mentre il potente ministro della difesa, personaggio ambiguo e violento, conquista un crescente favore popolare. La situazione politica precipita e Alex decide allora di fare la rivoluzione con alcuni amici. Per prima cosa si impossessa del suo vecchio locale massacrandone i proprietari poi comincia a gestirlo in maniera piuttosto particolare.

 

 

 

 

 

 

 

 

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JOHN DIES AT THE END 48 John dies at the end Don Coscarelli proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

La Soy Sauce è una nuova potentissima droga in grado di rendere visibili creature provenienti da altri mondi. Molti suoi consumatori tornano tuttavia dai “viaggi” completamente cambianti e con sembianze niente affatto umane. Alieni minacciosi stanno infatti utilizzando i corpi dei giovani ragazzi tossici come veicolo per invadere la terra. Solo due giovani nerd sembrerebbero gli unici in grado di salvare le sorti dell’umanità…

Il nuovo film di Don Coscarelli (“Phantasm”, 1979, “Bubba Ho-Tep”, 2002) è denso di simbolismi, metafore, dadaismi, invenzioni e creature degne di un Salvador Dalì cinematografico quale mostra di essere nel dipingere (più che filmare) questo prodotto molto onirico e assai poco – strettamente – cinematografico.
Qual’è la differenza tra un film e un sogno? Già, bella domanda. O tra un film e un incubo, sarebbe meglio chiedersi. Ma, d’altra parte: qual’è la differenza tra un sogno e un incubo? Queste, e altre domande mi ha stimolato “John Dies at the End”, pellicola molto attesa con la quale apro con contentezza il nuovo anno di recensioni. Dico con contentezza perché Coscarelli ci stupisce davvero, anche con effetti speciali, ma soprattutto con una storia cui dovrebbe esser dato un premio solo per la sceneggiatura, un dipinto, come dicevo all’inizio, più che una “scrittura filmica”, fatto di pennellate evocative che sfumano i loro contorni da un’immagine all’altra, creando arcobaleni gocciolanti che diventano mostri alieni ragnosi e imputriditi, per poi trasformarsi in maschere grottesche alla Max Ernst. La storia in sè non interessa a Coscarelli, che forse è ispirato da un Borroughs, da un Lovecraft, ha letto il libro omonimo di Wong da cui trae la sceneggiatura, ma poi si differenzia da queste ispirazioni perturbanti-letterarie lanciandosi nel reef del suo immaginario inconscio portandosi dietro gli spettatori tutti all’inseguimento.

Ci troviamo nella provincia statunitense, in compagnia di due amici trentenni, Dave ( Chase Williamson) e John (Rob Mayes). John si imbatte in un gruppo di giovani ad uno sconclusionato concerto di un gruppo di provincia, e durante tale evento viene introdotto all’uso di una strana droga, la Soy Sauce, nera, petroleosa e improbabile sostanza iniettabile. Dave annusa l’imbroglio cosmico e rifiuta di assumerla, ma per sbaglio si punge con una siringa di John, e scopre così che gli alieni usano i corpi degli inetti umani per invadere la terra. Il film è un fuoco d’artificio semidelirante, deliberatamente autoironico in alcune sequenze (come quella in cui la maniglia di una porta si trasforma in un grosso pene), a tratti difficilmente comprensibile nei suoi sviluppi e nelle sue contorsioni nelle quali domina sempre la visionarietà di un regista che se ne frega bellamente di tutti gli stilemi drammaturgici perturbanti e horror. Coscarelli cucina con la sua fantasia allo stato puro, mescolando ingredienti e provando nuove salse in un turbinio continuo di espedienti e inquadrature che non stancano mai, nonostante i 99 minuti di pellicola.

Forse alcuni dialoghi avrebbero potuto essere in verità debitamente accorciati, e poteva forse avere una funzione più pregnante anche la cornice narrativa del drugstore nel quale Dave racconta la sua incredibile storia a un ambiguo giornalista, un Paul Giamatti dannatamente sornione, come lo Stregatto di Alice. Eccola qui d’altronde l’associazione giusta: “John Dies at The End” è la versione maschile (omosessuale?) di “Alice in wonderland” di Lewis Carrol, una specie di “giorno del non-compleanno” del sottogenere a noi caro, dove tutto può accadere.

Non dobbiamo certo nasconderci che “John Dies at the End” è un film difficile, sicuramente astruso per certi palati abituati ai soliti plot horror, così rassicuranti nella loro cornice di inquietudini costruite a tavolino dai sempiterni Michael Bay and company.

Qui siamo su un altro pianeta, insieme ad Alice, appunto, col Cappellaio Matto, lo Stregatto e altro ancora, senza che ci vengano tuttavia risparmiate scene gore e pennellatine alla Lynch (come la protesi alla mano della giovane Amy). Come può mancare, in questo contesto “il portale” verso un altrove alieno? Lo troverete, naturalmente, ma naturalmente uguale e insieme diverso da come ve lo aspettereste. “John Dies at The End”: oggetto molto bizzarro e proprio per questo da vedere e studiare con attenzione e cura.

(http://psicheetechne.blogspot.it/)


17 Marzo

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 17 MARZO

Ore 18:30

GUMMO

di Harmony Korine, 1997.

***

Ore 21:00

BULLY

di Larry Clark, 2001.
(VO sott. in italiano)

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Tradate (Varese)
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GUMMO 46 gummo  film  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Xenia, Ohio. Un tornado ha distrutto gran parte delle abitazioni e decimato la popolazione (fatto realmente accaduto, siamo nel 1970). Anni dopo nulla è cambiato. Il trauma psicofisico causato da un evento naturale che ha il sapore di un diluvio universale mancato (punizione divina?) lascia nelle mani dei bambini una cittadina sperduta nel midwest statunitense.

Harmony Korine esordisce alla regia due anni dopo la convincente (e controversa) sceneggiatura di “Kids” e si distingue subito per originalità e per esplicita noncuranza delle regole del cinema mainstream americano. Un grande numero di tableaux autoconclusi e disturbanti si sovrappongono l’uno all’altro fino a formare una costruzione confusa e spiazzante. Utilizzando le prerogative del cinema direct, l’improvvisazione, la macchina a spalla, una colonna sonora slegata e frammentaria, un montaggio non lineare e alogico, il giovane autore sfida il pubblico a dimenticare la rassicurante confezione estetico-narrativa della produzione hollywoodiana e ad addentrarsi in un mondo crudele e amorale, grottesco e marginale ma sempre, e qui risiede la sua forza, credibile.

Le fantasie più assurde e animalesche di Korine non fanno che trarre spunto dalla vita reale, dal white-trash nichilista (e inconsapevole) delle periferie cittadine, dall’ignoranza dilagante di frange sempre meno marginali della popolazione americana. I bambini-padroni di Xenia(che uccidono gatti, sniffano colla, compiono atti vandalici di ogni sorta) saranno gli adulti di domani. I pochi adulti rimasti non si distinguono dai bambini per ferocia e insensatezza.

La visione è raccapricciante ma supportata da una riflessione disarmante: la mancanza di educazione e cultura non può che generare una recessione sociale e una bestialità mostruosa.

L’atmosfera in equilibrio fra un surrealismo decadente e un realismo grottesco sembra minacciata da una forza invisibile e malvagia, opprimente (le luci fluorescenti usate sul set contribuiscono visivamente). Come se un nuovo uragano fosse pronto a radere al suolo questa realtà autogestita e fallimentare.
Si lascia la sala con un senso di indefinito fastidio, nauseati dalle aberrazioni che l’uomo stesso può provocare, come se lo spleen in salsa trash in cui siamo stati immersi per 90 minuti si fosse impadronito di noi, insinuandosi nelle pieghe della nostra coscienza. Un film che lascia il segno nel bene o nel male.

Curiosità: Gummo è il soprannome di uno dei cinque fratelli Marx. Il meno conosciuto, dal momento che abbandonò quasi subito la recitazione e si dedicò alla gestione di un’agenzia teatrale.

(Matteo Ruzza http://www.pellicolascaduta.it/)

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BULLY 47 bully larry clark  film  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Larry Clark è indubbiamente un artista scomodo, anche perché da decenni sente l’urgenza di svelare il vero volto, quello votato all’annichilimento di sé, di una parte dei giovani americani.

Questo Bully è il suo terzo lungometraggio e narra di un gruppo di amici, tra i diciotto e i vent’anni, che decidono ad un certo punto di uccidere un loro coetaneo per non subire più le sue angherie e malvagità. Il ritratto, quindi, di giovani di buona famiglia, fottuti motherfuckers senza alcun obiettivo nella vita, che non sia quello della soddisfazione del piacere istantaneo, dissipati tra metamfetamine, sesso meccanico e incomunicabilità.

Un ritratto purtroppo non distante dalla realtà delle nostre metropoli contemporanee…Clark all’epoca dichiarò: “Bully non è un film ipocrita. E poi, ormai, i crimini dei giovani, gli omicidi con moventi distorti di amici o genitori, accadono in tutto il mondo. E’ inutile continuare a fingere che siano casi isolati o estremi…Mi interessa molto capire le reazioni che il mio film provocherà in altri paesi dove, ne sono convinto, ci sono tanti ragazzi come quelli del mio film. Non cercavo solo lo scandalo: volevo non falsificare una parte precisa della realtà che ci circonda e che dobbiamo guardare senza i falsi sogni e le torte di mele delle favole di Hollywood”.

La rappresentazione della superficialità, dell’indifferenza e dell’inconsapevolezza dei protagonisti del suo film è un atto d’accusa deciso contro la capacità educativa di una società, la nostra, che ha ormai in mente solo il profitto e il consumo. Il film è girato con uno stile secco e distaccato, la storia è tratta da un episodio di cronaca realmente accaduto, gli attori stanno recitando fino ad un certo punto (l’attore Brad Renfro è recentemente scomparso a causa di un overdose…). Ciò che colpisce allo stomaco lo spettatore è l’assoluta mancanza di coscienza morale dei giovani protagonisti, derivante però dal totale fallimento dell’educazione impartitagli da genitori assenti e lontani anni luce dalla vera realtà dei loro figli.

La geniale sequenza finale del film è paradigmatica di tutto questo, mostrando i ragazzi, durante il processo, ignari di ciò che gli accadrà tanto sono chiusi in un universo autoreferenziale e avulso dalla realtà circostante ed i parenti, tra il pubblico, che li osservano inebetiti come se li conoscessero solo in quell’istante veramente per la prima volta.

Colonna sonora da brividi con Cypress Hill, Eminem, Fatboy slim, Thurston Moore, Tricky…Indigesta, ma preziosa, gemma inedita in Italia, assolutamente da recuperare.

(http://scaglie.blogspot.it/)

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10 marzo

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 10 MARZO

Ore 18:30
THE BOTHERSOME MAN

di Jens Lien, 2006.
(VO sott. in italiano)

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Ore 21:00
BEYOND THE BLACK RAINBOW

di Panos Cosmatos, 2010.
(VO sott. in italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
http://kinesistradate.wordpress.com/
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THE BOTHERSOME MAN 44 The bothersome man  film  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

“La verità non esiste e la vita come la immaginiamo di solito, è una rete arbitraria e artificiale di illusioni da cui ci lasciamo circondare” questo secondo Lovecraft , ma forse anche secondo Andreas (Trond Fausa Aurvaag) che ,“rilasciato” nel deserto, unico passeggero su un autobus senza ritorno, e destinato al ruolo di piccolo contabile di un’asettica holding, in una sorta di Oslo purgatoriale, assiste al proprio ingresso in una strana comunità, in cui tutto è assunzione impersonale e distacco.

Il film si apre con una scena agghiacciante per ipotesi psicologica, e presto reiterata nel film a rappresentare il disagio di un uomo, che ha colto le rimozioni di chi gli sta intorno, e sa di essere assolutamente estraneo ed alieno ai suoi meccanismi. La società di Den brysomme mannen è moderna, controllata e superficiale: è tutto perfetto, ineccepibile ma le persone dell’ufficio ad esempio, sembrano discorrere ed essere quasi ossessionate da cataloghi di arredamento e da un’idea programmatica in cui essere felice, significa non mancare le scadenze o gli accessori.

Fanta thriller esistenziale, Den brysomme mannen sembra distillare il meglio dei personaggi di Lynch e Kaurismaki, con un incipit da satira della società e del costume odierno norvegese (non è un caso che il film sia stato distribuito anche con il titolo Norway of life), che procede quasi a ritroso sui binari di un horror beckettiano, dove il protagonista in un crescendo di reazioni e proteste che culminano nella scena della metropolitana, capirà che dovrà rompere gli schemi e il diaframma convenzionale dell’universo rigido, in cui vaga come outsider, per tornare al grande nulla accecante, forse freddo, ma inizio sostanziale di ogni cosa.

Quasi una fiaba macabra e senza lieto fine, dove la proiezione però di una via di uscita, la misteriosa melodia che emana dalla fenditura di una parete, sarà l’inizio della frattura e la conclusione dell’idillio con gli strani abitatori del film…Andreas è esiliato, licenziato perché ha squarciato il velo dell’ignoto e una volta assaggiata la realtà, non è più possibile tornare indietro o affrancarsene.

Trionfatore de la settimana della critica di Cannes del 2006, con un elenco di nominations per festival, quasi interminabile, Il film non è mai stato distribuito in Italia . E’ stato diretto da Jens Lien (Johnny Vang), misconosciuto al nostro pubblico, e rinnovatore insieme al regista Bard Breien ( “Kunsten a Tenie negativt”, L’arte del pensiero negativo), dei registri della black comedy nordica, che mescola l’orrore che nasce dalle maschere del quotidiano (consumo estemporaneo della civiltà e delle sue derive), con il teatro esistenziale e crudele dell’assurdo.

(Estratto della recensione di malvasya http://www.splattercontainer.com/)

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BEYOND THE BLACK RAINBOW 45 beyond the black rainbow  film  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Beyond the Black Rainbow è un film talmente al di fuori dai canoni attuali della fantascienza che, a prescindere dal risultato finale, da una buona idea di quanto fertile possa talvolta essere il terreno delle produzioni indipendenti odierne. Pur nella sua unicità, il film del regista canadese Panos Cosmatos è anche il tipico esordio concepito come atto d’amore nei confronti di una precisa stagione cinematografica, nello specifico quello della fantascienza distopica che ha avuto il suo periodo di massimo splendore tra la fine degli anni sessanta e il decennio successivo.

Sintetizzandone e in un certo modo aggiornandone le intuizioni estetiche, il lavoro di Cosmatos si pone quindi come ultimo arrivato di una famiglia che può contare su illustri esemplari come 2001: Odissea nello Spazio di Kubrick, THX 1138 di Lucas e Solaris di Tarkovsky, tanto per fare i nomi più altisonanti. Un cinema che si esprime attraverso uno stile visivo curatissimo, fatto di suggestioni estetiche tra lo psichedelico e il metafisico sorrette da trame spesso ermetiche e tendenti al filosofico. Se recentemente lo splendido Eden Log di Franck Vestiel ha dato un profilo moderno a questo genere, l’approccio di Cosmatos è al contrario chiaramente revivalistico, pur non limitandosi ad un recupero pedissequo dello stile della fantascienza dell’epoca ma anzi aperto anche a suggestioni dei decenni successivi, evidenti ad esempio nelle sonorità synth che accompagnano le immagini.

Trip ipnotico pregno di immagini simboliche e surreali, Beyond the Black Rainbow è, prima di tutto, una ricerca estetica d’avanguardia che si pone a metà strada tra il concetto tradizionale di “cinema” e la videoarte. Riflesso della medaglia è che tali ambizioni estetiche non trovano un degno supporto nell’impianto narrativo, veramente povero ed inconcludente, aspetto che risulta essere il grosso limite del film ed inevitabile spartiacque per il pubblico.

Immergersi nel magma sintetico di Cosmatos può risultare tanto tediante quanto un’esperienza unica, in ogni caso è un tentativo vivamente consigliato. Nel peggiore dei casi vi farete una gran dormita, nel migliore vedrete cose che gli altri esseri umani possono solo immaginare.

(Grinderman http://www.splattercontainer.com/)


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