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29 Dicembre

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 29 DICEMBRE


Ore 18:30
INTERCEPTOR
(MAD MAX) di George Miller, 1979.

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Ore 21:00
INTERCEPTOR – IL GUERRIERO DELLA STRADA
(Mad Max 2: The Road Warrior) di George Miller, 1981.

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Ore 23:00
MAD MAX – OLTRE LA SFERA DEL TUONO
(Mad Max Beyond Thunderdome) di George Miller, 1985.

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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Senza titolo-1
MAD MAX

Quando una banda di teppisti motorizzati, in un Medioevo prossimo venturo, gli uccide un collega e amico, un pugnace poliziotto dà le dimissioni. Quando poi durante una vacanza selvaggi punk gli massacrano moglie e figlio, si trasforma in Mad Max il vendicatore. Palesemente ispirato ai modelli del cinema hollywoodiano di azione violenta (e di giustizia privata), l’esordiente Miller, indubbiamente dotato di un certo brio effettistico e visionario, contamina fantascienza catastrofica, film di motociclette, violenza punk, gusto dell’eccesso.

 

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Mad Max 2: The Road Warrior

In un Medioevo venturo, gli uomini combattono all’arma bianca e si battono per il possesso della benzina, in un universo di penuria. Seguito di Interceptor (Mad Max, 1979), conferma il talento visivo e il senso del ritmo di Miller con qualche oncia di violenza in più. Trasposto nel territorio del fantastico, il personaggio del giustiziere acquista valenze supplementari.

 

 

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Mad Max Beyond Thunderdome

Arrivato nella città di Barteltown, dove regna una feroce regina, il guerriero postatomico Mad Max sopravvive a un duello gladiatorio nell’arena ed è esiliato nel deserto dove è salvato da ragazzi selvaggi. Pur inferiore ai primi due (Interceptor, 1979, e Interceptor il guerriero della strada, 1981), ne conserva la forza, il dinamismo e specialmente la suggestione ambientale. Nella 2ª parte e nella descrizione della civiltà infantile c’è una interessante dimensione filosofica aperta alla speranza senza scivolare nella retorica consolatoria.


22 Dicembre

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 22 DICEMBRE

Ore 18:30
DOMANI SI BALLA!

di Maurizio Nichetti, 1982.


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Ore 21:00
HO FATTO SPLASH

di Maurizio Nichetti, 1980.


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Ore 23:00
RATATAPLAN

di Maurizio Nichetti, 1979.


PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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DOMANI SI BALLA!

Maurizio e Mariangela sono due cronisti che lavorano in coppia a caccia dello scoop per una disastrata emittente privata, Onda 33, l’unica TV che trasmette 24 ore su 24. A loro, il direttore dell’emittente, un dispotico cialtrone dal fare altezzoso e perentorio, riserva sempre i servizi peggiori, quelli scartati dagli altri reporter.

I due accettano loro malgrado la situazione, sognando di essere assunti un giorno o l’altro dalla potente “Etere TV”, una super-emittente in grado di trasmettere programmi inutili e con costose scenografie hollywoodiane, telegiornali con notizie dell’ultimo minuto, persino programmi in diretta da un aereo!

Mentre Maurizio e Mariangela si trovano alla Casa di Riposo “Lazzi e Strapazzi” per l’ennesimo servizio inutile, si imbattono in un vero scoop: l’aereo che trasmette per Etere TV precipita proprio nei pressi dell’ospizio. I due dipendenti dell’emittente che si trovavano sull’aereo sono sani e salvi, ma ridono e ballano apparentemente senza motivo.

In realtà i due sono stati contagiati dall’allegria e dalla voglia di ballare dei marziani, di passaggio con la loro astronave attorno alla terra.

Il film inizia con un omaggio a Georges Melies. Sui titoli di testa è stato infatti ricostruito il set del “Viaggio sulla Luna”. Un omaggio al padre del cinema fantastico, in una storia che nel 1982 veniva presentata come fantascienza, ma doveva diventare ben presto realtà nell’Italia delle TV private libere: lotta all’audience, anche a costo di terrorizzare il pubblico.

(http://www.nichetti.it/)

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HO FATTO SPLASH

Carlina é una giovane insegnante di scuola media, angosciata dal rapporto con i suoi alunni.

Luisa vorrebbe sfondare nel mondo dello spettacolo. Angela è una studentessa universitaria fuori corso. Le tre amiche dividono insieme un piccolo appartamento a Milano, dove cercano di vivere senza integrarsi nel sistema e sperimentando, almeno nelle intenzioni, modi alternativi di vita.

Un giorno ricevono la visita del cugino di Carlina, Maurizio. Il ragazzo si è addormentato a sei anni di fronte al televisore e si è risvegliato da poco, dopo un sonno profondo durato vent’anni, ma ancora non spiccica una parola….

Curiosa la scena dello specchio, la macchina da presa ‘entra’ in uno specchio e ruota di 360 gradi. La scena è stata realizzata interamente in studio ed ha richiesto la realizzazione di due scenografie identiche, ma speculari. Il film contiene inoltre il ‘piano sequenza’ più lungo che Nichetti abbia mai realizzato: cinque minuti di film senza stacchi.

(http://www.nichetti.it/)


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RATATAPLAN

Un neolaureato in ingegneria, l’Ing. Colombo, viene scartato alle selezioni per l’assunzione in una grande ditta multinazionale, non avendo superato un difficile test attitudinale. Abbattuto e demotivato se ne torna a casa, ancora senza un lavoro. L’appartamento in cui vive si trova in un disastrato edificio a corte con ballatoi, nella periferia più estrema della grande città. Un edificio abitato da persone di diverse età e nelle situazioni più disparate, ma con un paio di cose in comune: la consapevolezza di trovarsi ai margini e il desiderio disperato di un riscatto sociale.

Per un ingegnere disoccupato anche fare il lavapiatti in un chioschetto-bar può essere un lavoro dignitoso se ti permette di portare a casa qualche spicciolo. Il fatto di attraversare di corsa l’intera città per servire un bicchiere d’acqua rappresenta qualcosa di più di una semplice commissione. E’ un viaggio, un odissea segnata dalla determinazione e dalla voglia di farcela a tutti i costi. Ma per uno che voglia seguire una strada del genere, gli ostacoli da superare sono veramente infiniti. Così, quando l’ingegnere sembra essere riuscito a raggiungere i suoi obiettivi, ecco che improvvisamente si ritrova di nuovo disoccupato e torna nel suo misero appartamentino di periferia.

Se il lavoro non abbonda, allora perché non dedicare il proprio tempo libero allo sviluppo della propria creatività?

Un film realizzato con 100 milioni di Lire italiane, che ha incassato nel 1979 oltre 6 miliardi. Venduto in tutto il mondo grazie alla sua caratteristica di film muto, è l’unico film al mondo a possedere venti minuti realizzati con gli stessi attori, nello stesso luogo, ma in una stagione diversa. “Magic Show”, cortometraggio di Nichetti dell’anno prima, è infatti stato realizzato sullo stesso story-board, ma in estate; RATATAPLAN, girato in inverno, ripropone la stessa sceneggiatura nella parte centrale del film.

(http://www.nichetti.it/)


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Domenica 15 Dicembre

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 15 DICEMBRE

Ore 18:30

MADE IN BRITAIN

di Alan Clarke, 1982.
(VO sott. italiano)

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Ore 21:00

BENNY’S VIDEO

di Michael Haneke, 1992.
(VO sott. italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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MADE IN BRITAIN

Il film si apre con il sedicenne skinhead Trevor (Tim Roth) che ascolta la sentenza del giudice dopo essere stato arrestato per motivi di odio razziale nei confronti della comunità pakistana e per furto. Lo vediamo uscire strafottente dal tribunale e di sottofondo c’è UK82, pezzo del gruppo punk scozzese The Exploited. Trevor viene assegnato ad un Residential Assessment Centre (centro di assistenza in cui sarà decisa la sua sorte educativa) , l’ultima spiaggia prima di finire in riformatorio o direttamente in un borstal (misura restrittiva inglese tra il riformatorio e la prigione ormai abolita).

La personalità del protagonista, interpretato ad arte da Roth è completamente nichilista e l’avvicinarsi ad idee di estrema destra propugnate dal National Front, in voga all’epoca in Gran Bretagna, sono per lui solo una scusa per sfogare la sua enorme rabbia e la suo sociopatia che lo rendono estremamente dannoso per gli altri ma in primis per se stesso. Il personaggio tratteggiato da David Leland è quanto di più forte vi sia in circolazione a livello cinematografico, ancora più violento e nichilista del suo “collega” Carlin, interpretato da Ray Winstone in Scum.

Il film cerca di stendere un’ analisi sull’utilità o meno del sistema correzionale per minori inglese, con personaggi che ne rappresentano le diverse sfaccettature. Non si schiera da una parte o dall’altra e non si pone nemmeno in un atteggiamento perbenista, ma lascia aperta una via per una riflessione, anche nel finale che è improntato in questo senso. Le scorribande di Trevor e l’interpretazione di Tim Roth non si fanno dimenticare facilmente.

Indimenticabile.

(Davide Casale)

 


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BENNY’S VIDEO

Benny è un quattordicenne appassionato di telecamere e video tanto che la sua stanza è occupata per la maggior parte da videocassette che lui guarda in continuazione. Un giorno invita una coetanea a casa, lei gli chiede che cosa è quello strano oggetto metallico e lui le fa vedere come funziona. Parte un colpo e da lì il dramma. Confessa tutto ai genitori e loro si preoccupano solo del futuro del bravo figliolo che si ritrovano in casa. Occorre trovare una soluzione….

Secondo film per il cinema di Haneke e secondo saggio sulla violenza e sull’ipocrisia medioborghese cristallizzata nel suo conformismo a cui non si può rinunciare. Comincia come una specie di snuff movie mostrando l’uccisione di un maiale con una pistola a proiettile captivo (quasi una citazione apocrifa di un corto di Franju girato in un mattatoio, dal vero), prosegue con la certificazione della mania del Benny del titolo (sarà un caso che è lo stesso Arno Frisch, qui adolescente, che sarà uno dei due psicopatici in guanti bianchi di Funny Games?) che con la sua telecamerina osserva tutto spiando anche i vicini, guarda in continuazione video trash sulla sua tv e ha una stanza occupata in massima parte da videocassette e culmina con un pianosequenza di oltre due minuti in cui Benny e la ragazza giocano con quello strano oggetto.

Da qui in avanti un continuo gioco al rialzo con l’ipocrisia classista che prende il sopravvento e genera l’orrore.
Rispetto al suo esordio aumentano i bersagli nel mirino ma permane la distanza che pone il cineasta austriaco tra sè e la materia narrativa. L’effetto è volutamente straniante perchè più neutro è il modo di raccontare, più si empatizza quello che avviene.

La cinepresa di Haneke si limita a documentare fatti, lasciando quasi tutto l’orrore fuoricampo, facendo immaginare più che mostrando chiaramente. Ma la brutalità dell’effetto sullo spettatore è praticamente la stessa anche perchè fatalmente si viene imprigionati in un delirio voyeuristico, lì fermi davanti al proprio schermo, guardando lo schermo nella stanza di Benny che mostra quello che la telecamera del ragazzo sta filmando.
Benny vive nel proprio mondo distorto, solo nella sua stanza con la sua telecamera che media la realtà per lui. Per lui la realtà che lo circonda è sempre in differita registrata su una videocassetta. Riguardo alla sequenza con la pistola mi è venuto il dubbio che per Benny quello che doveva essere un gioco, uno scherzo si era tramutato non volendo in una tragedia (all’inizio è lui che porge la pistola alla ragazza dandole della vigliacca perchè non spara) in cui ogni tentativo di porvi rimedio era peggio dell’errore precedente causa panico .

Anche il suo atteggiamento da ragazzino arrogante , come uno che ha fatto una cosa che potevano fare solo i grandi, rafforza il mio dubbio.
Uno pensa: è questo l’orrore che ci vuole comunicare Haneke? La risposta è:assolutamente no.
Il vero orrore deve ancora arrivare ed è racchiuso tutto nella apparente (non) reazione dei genitori. L’ipocrisia borghese non viene sgretolata nemmeno da un atto tanto violento: bisogna comunque preservare la facciata e il futuro di Benny.
Il tutto deciso così su due piedi dopo un breve conciliabolo.

“Perchè lo hai fatto?” domanda il padre
“Che cosa?” risponde Benny come se non capisse di che cosa stesse parlando.

Benny uber alles: domina il suo branco è lui il maschio alfa. I suoi genitori sono il paradigma della debolezza della società in cui vivono. Benny è al di sopra: si erge quasi a divinità arrogandosi il diritto di vita o di morte. O meglio la morte per lui non ha significato e l’atto dell’uccisione proprio perchè il concetto di morte è svuotato di qualsiasi valore appare anche esso senza significato.

(http://bradipofilms.blogspot.it/)

 


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Domenica 8 Dicembre

Domenica Uncut

Domenica 8 Dicembre

Ore 18:30

ELECTRIC DRAGON 80.000 V
(えれくとりっくどらごんはちまんぼると)

di Sogo Ishii, Japan, 2001.
(VO. sott. Italiano)

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Ore 21:00

LATE BLOOMER
(Osoi hito, おそいひと、)

di Shibata Gō, Japan, 2004.

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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ELECTRIC DRAGON 80.000 V

Che l’Oriente sia la salvezza del cinema? L’originalità cinematografica sembra ormai da qualche anno risiedere in terra orientale, che sforna prodotti sempre più interessanti e sempre più svincolati dai teoremi hollywoodiani del caso.

Prendete ad esempio “Electric dragon 80.000 V” di Ishii Sogo e ditemi se in meno di 60 minuti vi era mai capitato di ricevere una quantità così elevata di sensazioni, emozioni e pensieri.

Velocemente, quasi come suggerito da immagini frenetiche, veniamo a conoscenza di Dragon eye Morrison, giovane giapponese che, in seguito ad una scarica elettrica, si ritrova la capacità di poterla incanalare nel suo corpo. L’unico modo che ha di scaricare tutta l’energia è quello di suonare la sua fidata chitarra elettrica. Da un’altra parte della città però, Thunderbolt Buddha è un esperto di telecomunicazioni, abilità che sfrutta per intercettare telefonate di ignari passanti. I due si scontreranno in un duello all’ultimo lampo per decidere a chi spetta il dominio energetico di Tokyo.

L’aggettivo che più si adatta a questo film è senza ombra di dubbio elettrico, e non solo per il rimando evidente alla trama. Elettrica è la macchina da presa, che scorre con velocità e con un ritmo forsennato tra i palazzi di Tokyo, elettrico è il montaggio iper-cinetico ed elettrica è anche la scenografia che, attraverso gli alti grattacieli, opprime e schiaccia gli uomini, ma li trasporta anche in quel cielo pronto a scoppiare di fulmini ed elettricità da un momento all’altro. E se l’immagine è elettrica, il suono e le musiche non sono da meno: per tutto il film scorre lento il rumore della trasmissione della corrente nei cavi dell’alta tensione tra stridii e note musicali inventate, fino a quando subentra la chitarra elettrica stridente, ammaliante e disturbante come le sirene di Ulisse, formando una delle colonne sonore più sperimentali ed emozionanti degli ultimi anni.

Ma non è solo una questione stilistica. “Electric dragon 80.000 V” è anche tematicamente elettrico. Non si parla dell’eterna lotta tra il bene e il male qui, Sogo riesce ad andare oltre a queste due definizioni dipingendo due personaggi che si completano l’uno con l’altro ma che, come due poli opposti, inevitabilmente si scontrano e producono scintille. Se Morrison è la natura primitiva dell’uomo, l’essere in cui regna l’istinto e la primordialità dei bisogni (non sono un caso gli sfoghi alla chitarra), Thunderbolt Buddha è la perfetta incarnazione dell’uomo moderno, dalla personalità divisa (la mezza maschera) e dai bisogni repressi. I due si completano l’un l’altro, ma l’unione tra loro non è possibile.

Che l’Oriente sia la salvezza del cinema? Secondo me la risposta è sì. Nuovi linguaggi, nuove teorie, nuove storie.

(www.pellicolascaduta.it)


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LATE BLOOMER

Il termine “Late Bloomer” definisce un bambino rimasto attardato rispetto ai propri coetanei per via di uno sviluppo più lento che, d’un tratto, colma il divario che lo separa dai suoi pari, arrivando perfino a superarli. Definisce anche un adulto il cui particolare talento, celato per anni al riparo di una vita anonima e tranquilla, improvvisamente si desta, permettendogli un deciso balzo esistenziale.

Il Late Bloomer in questione è Sumida-san, un disabile trentacinquenne dalla vita semplice, spesa tra grandi bevute di birra e i concerti del gruppo hardcore del suo migliore amico Take. Un giorno conosce Nobuko, giovane studentessa che vorrebbe trascorrere del tempo con lui per poterlo studiare da vicino e ultimare così la sua tesi di laurea. Sumida se ne invaghisce e decide di portarla con sé ad un concerto di Take. Quando però tra Nobuko e l’amico nasce un sentimento più profondo, Sumida perde il controllo, e da buon Late Bloomer compie il suo scatto, feroce, in avanti.

Seconda opera del talentuoso regista indie Shibata Go, viene notato in Occidente solo l’anno scorso, con quattro anni di ritardo rispetto alla sua uscita giapponese. L’idea alla base prende le mosse da una semplice domanda: “Può essere interessante vedere un film con un disabile killer?”. Girato in un bianco e nero digitale, con stile anarchico e sperimentale, Late Bloomer fa della disarmonia un linguaggio, alternando al surreale verismo di un quotidiano dipinto con taglio quasi amatoriale, luci naturali e camera a mano, lisergiche distorsioni e frenetiche accelerazioni cyberpunk degne eredi del miglior Tetsuo. La musica di World’s End Girlfriend segue e sottolinea l’immagine, ed è un compendio pregiato dell’elettronica di fine novecento, mischiando con disinvoltura la tradizione ad atmosfere jazz e all’industrial, rievocando alla grande le sonorità malate predicate da Aphex Twin e compagni più di un decennio fa.

Impossibile restare indifferenti, come è impossibile non provare empatia per Sumida e cercare di guardare il mondo con i suoi occhi. Shibata Go lo sa, e si avvicina quanto basta per farci toccare con mano la parabola del disabile verso la follia. Scoprire il pericolo mortale in un uomo all’apparenza così inerme getta immediatamente una nuova luce sul protagonista, il potenziale di violenza si manifesta in tutto il suo orrore e diventa pervasivo di ogni gesto, di ogni sguardo, di ogni silenzio. Sumida-san è ora un individuo come e più grande di noi. Uno di cui avere paura. Tanti sono i riferimenti cinematografici presenti: oltre al già citato film di Tsukamoto, è dichiarata e strutturale l’influenza di Taxi Driver, di cui viene riproposta la scena della preparazione domestica del protagonista all’omicidio, come di Battles Without Honor and Humanity, Freaks e di Psycho, con Sumida-san che come Norman Bates si permette il lusso di un atroce delitto nel bagno; ma il rimando è anche alle opere di Von Trier, Herzog, Koji Wakamatsu e Jodorowsky, e alla loro maestria nel dipingere e indagare il senso tragico proprio della normale condizione di umana anormalità; non dimenticando certo gli slasher movie del gorefather Herschell Gordon Lewis, di cui condivide atmosfere e il piacere sincero nell’esagerare col sangue. Uno dei migliori film giapponesi degli ultimi anni.

(FGMG)

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DOMENICA UNCUT

DOMENICA 24 novembre 2013

Ore 18:30
KAMIKAZE GIRLS
(下妻物語, Shimotsuma monogatari, “La storia di Shimotsuma”)
di Tetsuya Nakashima, Japan, 2004.

Ore 21:00
MEMORIES OF MATSUKO
(嫌われ松子の一生, Kiraware Matsuko no Isshō)
di Tetsuya Nakashima, Japan, 2006.
(Vo sott. in italiano)

PROIEZIONI GRATUITE


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KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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KAMIKAZE GIRLS

Una ragazza corre all’impazzata cavalcando un motorino, in una strada immersa nei campi. Non controllando un bivio, inaspettatamente, avviene lo scontro con un camioncino. La ragazza viene sbalzata in aria ed esprime il suo ultimo desiderio.

Molte storie potrebbero finire così, ma invece questo è l’inizio di un folle e divertentissimo film.

Kamikaze Girls è uno scontro di stili, di ambienti, di modi di essere. Interessante notare di come si tratti di una storia adolescenziale, ma non fatta con gli occhi di una ragazzina, ma di un adulto forse non troppo adulto, che sa perfettamente come gestire l’apparato comico, ma al contempo anche quello (melo)drammatico ed emotivo. Il film, però, possiede il non facile pregio di risucire a marcare bene la questione dell’ ”essere e dell’apparire” senza cadere nel fazioso né, soprattutto, nel pedante.

Momoko e Ichigo, sono lo specchio estremo della gioventù giapponese, la prima tutta casa, musica classica, ricamo e vestiti da lolita, la seconda indisciplinata, grezza, sempre per strada e in cerca di guai. Eppure l’apparenza non è lo specchio del loro vero essere e la più piccola e apparentemente capricciosa Momoko, si dimostra molto più matura e sicura di sé di Ichigo, che agli occhi di tutti risulta essere una persona inflessibile e tutta d’un pezzo.

Nota di merito all’attrice Anna Tsuchiya, che nel film interpreta Ichigo, riuscendo ad interpetare un ruolo non così immediato per una ragazza (una specie di surreale Bunta Sugawara al femminile); si giostra frammentariamente il ruolo della ribelle, della violenta, dell’irrispettosa, ma allo stesso tempo riesce a calarsi nella parte di una persona dal costante bisogno di una forte amicizia, di un riscontro dagli altri, senza mai perdere, però, l’atteggiamento abituale.

Kamikaze Girls non è un film da sottovalutare, non è il solito e banale veicolo pubblicitario per una cantante, è infatti ben lontano dalla solita cinematografia cool e dall’estetica da videoclip; riesce invece a fondere il gusto tipicamente giapponese per una iconografia da manga a gag che sfiorano l’inverosimile. La regia ottima e coinvolgente si fonde poi ad una fotografia satura di colori al limite del lisergico. Una buonissima sceneggiatura sorpendente e mai banale su cui tuffarsi, facendosi cullare dalle note della splendida colonna sonora di Yoko Kanno.

(Martina Leithe Colorio http://www.asianfeast.org/)

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MEMORIES OF MATSUKO

Immaginate un melodramma di Douglas Sirk, ma immaginatelo come se fosse stato girato in acido, e avrete lontanamente un’idea di cosa è Memories of Matsuko (2006). La nuova straordinaria opera di Tetsuya Nakashima (tratta dal romanzo di Muneki Yamada), è stato – almeno per chi scrive – il vincitore morale del Far East Film 2007.
Già il delirante e divertente Kamikaze Girls (2004), aveva fatto capire le capacità registiche di Nakashima, qui però si va ben oltre la messa in scena.

Memories of Matsuko racconta la storia della protagonista partendo dalla fine e si dispiega di fronte ai nostri occhi sotto forma di flashback. Un percorso, che ci accompagna attraverso il Giappone degli ultimi cinque decenni e delinea la tragica, a volte comico-grottesca, vita di una ragazza che, senza troppi giri di parole, voleva soltanto amare e soprattutto essere amata.

Lo stile visivo coloratissimo (che guarda alla pittura, ma anche alla pubblicità), stracolmo di idee e ricca di particolari, rimane lo stesso di Kamikaze Girls, con una fotografia e un uso dei colori strepitosa, ma è la costruzione della storia e dei personaggi che si compie in maniera memorabile.
Buona parte del merito va al notevole cast, con in testa Miki Nakatani, meritatamente premiata per la sua interpretazione ai Japan Academy Awards, e il giovane Kawajiri Shou nel ruolo del nipote che ripercorre la vita di Matsuko.

In Memories of Matsuko, la commedia, già piuttosto nera, si colora rapidamente di tragedia per finire nel melodramma più puro, senza apparire mai stucchevole, mai ridicola, mai ricattatoria. Il regista inoltre si concede frequenti incursioni nel musical, con lunghe elaboratissime coreografie ed una azzeccata colonna sonora (a cura dell’italiano Gabriele Roberto, è stata premiata ai JAA), che copre in pratica ogni direzione musicale immaginabile.

Insomma, il film è una densa bouillabaisse di generi, stili, sperimentazioni, sentimenti ed emozioni, che quasi faticano ad essere tutti contenuti, ma che magicamente trovano un loro perfetto equilibrio, creando un ritratto assolutamente unico e coinvolgente, come non se ne vedevano da un bel pezzo. Nakashima (il cui prossimo film, Paco and the Magical Picture Book, ci esalta fin dal titolo), senza dubbio uno dei registi giapponesi contemporanei più interessanti, ci regala con Memories of Matsuko un racconto struggente di rara bellezza, che potrebbe commuovere anche un sasso.

Cinema con la C maiuscola. Da non perdere.

( Paolo Gilli http://www.asianfeast.org/ )


[3/NOV] AMERICAN MARY // HELLDRIVER

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 3 novembre 2013

Ore 18:30
AMERICAN MARY

di Jen Soska, Sylvia Soska, 2012.
(VO sott. italiano)

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Ore 21:00
HELLDRIVER

(ヘルドライバー)

di Yoshihiro Nishimura, 2010.
(VO sott. italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
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AMERICAN MARY

Se mai, nella storia del cinema horror, è esistito un film dichiaratamente “femminista” nel senso più stretto del termine, non potrebbe che essere questo American Mary, vero e proprio canto del cigno al sangue sull’emancipazione della donna.

Colpevoli dell’operazione sono due sorelle gemelle qui alla seconda prova registica, le signorine Soska, presenti nel film in un piccolo cameo nel ruolo di due gemelle dark che non possono essere siamesi perchè non legate nella carne (in pratica loro stesse).

Queste gentili donzelle ci portano attraverso il volto glaciale ma ultrasexy della protagonista, Mary Mason (bastava una …lyn in più sul nome per rendere esplicito l’omaggio!), in una sorta di inferno underground ambientato per lo più dentro un locale striptease dove transitano un considerevole numero di persone a cui non sembra giusto che sia Dio a decidere del loro aspetto fisico.

Studentessa promettente in chirurgia, Mary deve sanare il suo disastroso bilancio e tenta un colloquio in questo dubbio locale come lap dancers, ma il proprietario, dedito alla tortura e all’estorsione scopre subito le sue potenzialità nel ricucire e tagliare la carne delle vittime dei suoi “interrogatori”. Da lì a poco Mary verrà contattata dall’assurda Beatress, una sosia di Betty Boop a cui la chirurgia plastica ha dato contorni grotteschi: le serve un chirurgo che tolga quegli ultimi elementi femminili alla sua amica Ruby Realgirl che ambisce a diventare a tutti gli effetti una bambola di carne attraverso l’asportazione dei capezzoli e la chiusura semitotale del pube (una sorta di Barbie in carne umana). Invitata ad una festa di chirurghi Mary viene drogata e violentata dal suo professore, un gesto vigliacco che scatenerà in lei una vendetta senza precedenti.

Le sorelle Soska riprendono il tema della nuova carne portato avanti da David Cronenberg a partire dagli anni settanta, e lo sposta nel circuito degli appassionati di impianti sottocutanei, piercing e roba del genere. Mary diventa una poetessa della manipolazione fisica di chi vuole cambiare, di chi vuole mutare la propria forma con sembianze spesso simili a quelle del diavolo (o Dio?). Mary diventa anche un angelo vendicatore implacabile, oscillando tra una lucida pazzia e un normale sadismo omicida eppur capace di sentimenti d’amore (ma la storia d’amore con il proprietario del locale rimane solo accennata). Lo stile cinematografico, non esente da qualche imperfezione dettata probabilmente dall’inesperienza, è asciutto e scorrevole, l’attrice Katharine Isabelle è perfetta nella sua duplice interpretazione di crudele dominatrice e sensuale innocente, difficile dimenticarsi del suo volto e del suo sguardo a fine visione. Inutile dire che il sangue scorre a fiotti ed alcune scene rasentano l’insostenibile, ma la pellicola è quanto più distante si possa trovare dal Torture porn, nulla di quanto si vede appare gratuito, tutto è perfettamente inserito in una storia drammatica e crudele alla quale è difficile non appassionarsi.

Affine per certi versi a Excision, American Mary si presta a diventare un piccolo capolavoro del nuovo cinema horror al femminile, che tra non molto inonderà di sangue e Mascara le sale di tutto il mondo.

(Dottor Satana http://www.splattercontainer.com/)


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HELLDRIVER

E tre anni dopo ci troviamo a guardare il nuovo film del regista di Tokyo Gore Police, quello che era stato un po’ il via o comunque facente parte della prima onda d’urto del (sotto)genere denominato poi ufficialmente Sushi Typhoon. Nel frattempo molta acqua è passata sotto ai ponti di questa remunerativa costola della Nikkatsu nata in maniera furba come aggiornamento del già esistente, ma bagnato da un’aura di esotismo spalmata a modo, giusto per allettare un pubblico prevalentemente nord americano.

E paradossalmente tanto ha fatto, visto che il filone si sta gonfiando, invaso dai molti cloni prodotti dalla concorrenza che stanno seguendo regole e modi dettati dai “pionieri” arrivando ad inquinare con le loro impronte anche impensabili prodotti pensati per la tv (The Ancient Dogoo Girl, Hara Peko Yamagami Kun). La marca caratteriale e continua del tutto? Gli effetti speciali particolarmente “autoriali” e pop; Nishimura Yoshihiro, infatti, nasce come effettista ma negli ultimi anni ha ampliato la propria azienda circondandosi di collaboratori e alleggerendosi la parte operativa dedicando più tempo a quella artistica e alla regia.

Helldriver è un successo, non fosse altro per il progresso macroscopico rispetto al precedente film e per la grande inventiva, ritmo e qualità che spesso sono del tutto assenti nei film prodotti all’interno di questa sorta di franchise. Il regista raddrizza il tiro, spinge di più sulla narrazione, e forte di un budget vistosamente maggiore regala un florilegio continuo, finanche eccessivo (ed è giusto che sia cosi), di invenzioni e trovate dove l’effetto è sempre la fonte primaria del meraviglioso.

Alla fine si storce il naso giusto per delle citazioni puerili e urlate di qualche successo hollywoodiano, ma fortunatamente sono soverchiate spesso da altre finezze tra cui vale la pena citare la co-protagonista Eihi Shiina che autocita sé stessa nel ruolo di Asami Yamazaki del bel Audition di Miike Takashi.
Il regista ha impatto, idee precise e un buon universo in testa anche se manca totalmente di senso del grandeur, di pathos e emotività, elementi che sorgono davvero di rado facendo però -di nuovo- avvertire una piacevole evoluzione nel proprio mestiere.
Un po’ di satira socio-politica e due sequenze esageratamente irripetibili sono le ciliegine sulla torta di questo delirio splatter pop che galoppa per due ora senza mai annoiare spingendosi ad occupare per intero tutti i titoli di coda e regalando il classico doppio finale, facendo in parte dimenticare le classiche cadute di stile e di mestiere; personaggi inutili che durano una manciata di minuti, lungaggini ripetitive e le classiche debolezze di Nishimura, grezzo, rozzo, a tratti tecnicamente analfabeta ma che con questi prodotti tutto sommato solari e di puro intrattenimento riesce ad evocare titoli concettualmente simili del passato e nomi di registi come Suzuki Noribumi, uniti alle follie del giovane Ching Siu-tung (senza ovviamente possederne lo stile).

Un film più scritto “quindi”, pregiato da quei giochi di sceneggiatura che sono solitamente assenti negli altri film uscenti dalla fucina della Nikkatsu/Sushi Typhoon ed eccessivo in tutto inclusi i titoli di testa che esplodono a metà metraggio e subito dopo un anomala scena tali da far ipotizzare un fine film, salvo poi smentirlo con una seconda parte ancora più delirante.

Una ragazza è continuamente vessata da sua madre, fin quando nel climax dell’ennesimo abuso una meteora colpisce la donna, giusto il tempo di permetterle di strappare il cuore alla figlia per poi pietrificarsi. La meteora ha anche il “merito” di trasformare la popolazione in una sorta di esercito di zombie alieni e il Giappone viene cosi diviso a metà da un muro al nord del quale risiedono tutti i contaminati. Scienziati del governo giapponese incastonano nel torace della ragazzina un nuovo cuore a motore collegato ad una katana dalla lama a catena (come una sega elettrica) al fine di inviarla nella zona a rischio; suo obiettivo primario, la ricerca della madre e il lancio di un segnalatore per fare in modo che i militari possano sganciare su di lei con maggiore precisione dei missili e annientarne la minaccia una volta per tutte. Ma l’obiettivo della ragazza è principalmente il riscatto, la vendetta e la ricerca di una sua felicità negata. Nel frattempo la madre risvegliatasi è divenuta il peggiore dei problemi che un paese possa avere, una creatura mutante capace di ergere, tra le altre cose, colossi monumentali composti di corpi (come nel bel racconto di Clive Barker In Collina, le Città). Gran tourbillon di comparse note (tra cui Takashi -Ju-On- Shimizu), buona colonna sonora e una confermata speranza per i prossimi lavori della Sushi Typhoon.

(Senesi Michele Man chi http://www.asianfeast.org/)


11 Agosto : Quando Peter Jackson non faceva cagare!

DOMENICA UNCUT- 11 AGOSTO 2013

PROIEZIONI ALL’APERTO
SULLA RIVA DEL LAGO DI COMABBIO

ORE 21:00

BAD TASTE

(Peter Jackson, NZ, 1987)

***

ORE 23:00

BRAINDEAD

(Peter Jackson, NZ, 1992)


FREE ENTRY

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Presso LA SAUNA recording studio
Via dei Martiri n.2 -Varano Borghi (VA)
https://www.facebook.com/pages/La-Sauna-recording-studio/68777161401

222_Subtle_Crack

BAD TASTE

Scatenato splatter del regista neozelandese Peter Jackson che travolge per la quantita’ immane di effettacci e battutacce demenziali.La storia:una piccola & pacifica cittadina e’ vittima di un invasione aliena. Lo scopo dei cattivoni e’ quello di trovare tanta carne per aprire una catena di fast-food intergalattici a base di hamburger umani! Un gruppo di sgangheratissimi cacciatori di alieni dovranno porre rimedio alla delirante catastrofe. Teste che eslpodono, gente che entra ed esce dagli alieni con motosega alla mano,vomiti e sbudellamenti a iosa per un film divertentissimo ed insospettabilmente ben diretto(visto anche il non-esistente budget!). Davvero spassoso e con una certa critica di sottofondo al meccanismo consumistico delle gigantesche catene di fast-food americane.

 


BRAINDEAD

Incredibile splatter del regista neozelandese Peter Jackson che si scatena in tutta la sua strabordante ed allucinata immaginazione. La storia narra di un ratto mostruoso che è il frutto di un accoppiamento fra una scimmia ed un topo e che con il suo morso è in gardo di trasmettere il morbo dello zombismo. Lo schifoso essere in questione morde una donna contaminandola e lasciando cosi’ al figlio di lei l’oneroso compito di nasconderla e frenare i suoi istinti cannibaleschi. Il ragazzo è sempre stato succube della personalita’ possessiva della donna e passera’ dei giorni da incubo a fianco della mamma-zombi che mordendo a destra e a manca diffondera’ ancor piu’ il disastroso morbo. Un film incredibile. E’ questo l’unico commento che si puo’ fare per questa pellicola carica di uno splatter esagerato e goliardico come nel tipico stile del regista. Demenzialità a go-go e scene raccapriccianti che si protraggono fino all’assurdo finale in cui il ragazzo, con tanto di falciatrice a motore in mano, farà a pezzi un’orda di affamati morti viventi.Geniale,scatenato e tecnicamente sorprendente “Splatters..” riprende alcune idee del precedente “Bad Taste” amplificandole e migliorandole grazie ad un budget nettamente superiore e grazie anche ad una sceneggiatura brillante e follemente intelligente. Un esempio: nella scena finale del film la madre ,che è diventata uno zombi di dimensioni gigantesche, dopo essere stata sventrata a colpi di motosega, ha un’ultima reazione disperata..apre il suo ventre squarciato come se fosse un utero gigantesco e tenta di abbracciare il figlio come se lo volesse fagocitare e riportare nel grembo materno. Una metafora di affetto possessivo materno resa nella maniera più cruda e folle possibile. Grande!

VOTO: 9

http://www.alexvisani.com/


2 Giugno: CLASSE 1984 // HARDWARE

DOMENICA UNCUT

Domenica 2 Giugno

Ore 18:30
CLASSE 1984

di Mark L. Lester, 1982.

***

Ore 21:00
HARDWARE

di Richard Stanley, 1990.

 

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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CLASSE 1984 64 Classe 1984 proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Classe 1984 uscì nelle sale creando scandalo per l’eccessiva dose di violenza ma anche per i contenuti antieducativi della storia, fece una fugace apparizione in vhs ma poi scomparve nell’oblio cinematografico facendo totalmente dimenticare di sè al punto che Mark L. Lester, il regista, ne preparò una versione protofantascientifica nel 1990, Class of 1999, in cui i violenti studenti erano dei robot killer. Ma gli studenti veri della scuola dove Perry King è professore di musica che si trasforma in giustiziere omicida ossessionato dallo scontro col teppista minorenne Stegman (uno splendido Timothy Van Patten in pura tenuta pre George Michael) fanno molta più paura e generano mille volte più angoscia di un cyborg; sono veri, sono il prototipo dell’americano arrivista, spacciatore e psicopatico di quegli anni.

Viene da pensare ad un’apologia fascista in cui l’insegnante tenta in tutti i modi di redimere le pecore nere arrivando al sacrificio d’Isacco pur di ottenere giustizia. Anche Roddy McDowall segue le sue orme e non esita a impugnare la pistola pur di insegnare biologia ai suoi studenti, ma con molto meno successo del suo collega che non esita a maciullare i teppisti pur di difendere la moglie Merrie Lynn Ross, pluristuprata, incinta e in pericolo di vita. Tuttavia il grasso del gruppo indossa la svastica sulla maglietta mentre il professore assomiglia ad un ex-hippy che deve affrontare il delirio degli anni 80, uno scontro generazionale che ormai è parte della storia.

Il film diventa quindi un documento importante di una precisa situazione epocale edulcorata dal politically correct e dal buonismo di facciata (nessuno può arrestare i giovani finchè sono minorenni) che hanno rovinato una gioventù altrimenti capace di espimere al massimo la sua creatività artistica (Stegman, il cattivo, è uno splendido pianista allo stesso modo in cui Alex di Arancia Meccanica è un estimatore di Beethoven). Un grande film da riscoprire per sempre con l’aggiunta di una delle prime interpretazioni di Michael J. Fox, in grado di rappresentare la faccia pulita dell’America Reaganiana di allora.

(Dottor Satana http://www.throughtheblackhole.com/)

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HARDWARE 65  Hardware proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Ci sono film che nascono sotto stelle ambigue, trascorrono i primi anni dalla loro uscita nel dimenticatoio, e quelli immediatamente successivi alla ricerca di una stabilità critica, rimbalzando impazziti da un’etichetta all’altra: trash o cult ? cult o trash ?
La pellicola di Stanley ne è esempio lampante. Nato dall’incontro tra un giovane regista, cresciuto a bacon, video clip e narrativa cyberpunk con gli ideatori di Shok, storia illustrata da McManus e O’Neill per la rivista 2000 AD, esce nel ’91, viene premiato nello stesso anno ad Avoriaz per i suoi effetti speciali e poi sparisce nel nulla.

Riprenderlo oggi, vuol dire dover fare i conti con la sua essenza a metà strada tra il cinema di maniera e apocalittiche previsioni future, ma il gioco vale la candela. Certo, la trovata iniziale della tecnologia che si rivolta contro i suoi ideatori puzza di muffa più del gorgonzola, ma una volta superato questo primo ostacolo, l’anima dell’opera prima di Stanley si manifesta in tutto il suo spessore. Hardware fotografa quel che resta del pianeta terra dopo una non meglio definita “Grande Guerra”: lande desolate in stile Ken il guerriero, rottami, piogge acide, ruggine e residuati tecnologici. Uno spassionato omaggio al western spaghetti dove tutto è stato convertito in hardware, è non c’è più la minima traccia di software. Ma Hardware va oltre i paesaggi post apocalittici e post umani, perché è presagio delle giocose faide combattute in rete, dove non si può trattare sullo spazio virtuale che si ha a disposizione, e dove ogni azione ha come scopo preciso l’eliminazione del nemico immaginario. La trama, la sceneggiatura, il soggetto stesso diventano pretesto per mettere in scena lo scontro tra due rivali: gli umani (Jill e Mo) contro Mark 13, “macchina della morte” ideata anni or sono dall’esercito, che viene involontariamente rianimata da una scultrice di ferraglia e, pur essendo stato a più riprese distrutto dalla coppia si rianima, risorge e continua a giocare, e lo fa in puro stile video ludico: si fa beffe del game over, perché ha già salvato la partita e può riprendere dal punto in cui era stato sconfitto, ma intanto ha recuperato energie e conosce le mosse dell’avversario.

Stilisticamente, il film di Stanley è un’affascinante concentrato di sovversiva sci–fi : gli esterni desertici e desolati assomigliano a quelli di Dune e Mad Max, mentre gli interni rimandano al caos organizzato di Brazil e Blade Runner; il montaggio convulso e la colonna sonora martellante (Iggy Pop, Motorhead, Ministry e Public Image) creano sequenze stranianti e mai scontate, ma è grazie alla sua sottotraccia simbolica che la pellicola raggiunge il suo dissacrante apogeo. Il nome del robot, Mark 13, rimanda al Vangelo secondo Marco, dove si legge che “la carne non sarà risparmiata”, il protagonista si chiama Mo (forse “Mosè” ?), le doghe profumano di torta alle mele, quel che resta del governo vieta la riproduzione, il cranio del robot si fregia della bandiera americana e quando viene erroneamente ristrutturato si ritrova con tanto di fallo perforante.
Non solo, Mark 13, è il programma definitivo, un tecnologico condensato di cavi, cip e alluminio programmato per estinguere in maniera violenta quel che resta del genere umano, un’invincibile macchina di morte che può essere sconfitta solo dall’acqua, elemento puro ma mai come in questo caso infetto e difficilmente reperibile, lo stesso che può mandare in tilt l’hardware del computer che ci controlla, ci spia, e allo stesso tempo è depositario e custode delle nostre attività e dei nostri segreti.

(Luca Lombardini http://www.positifcinema.it/)

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19 Maggio : LE ARMONIE DI WERCKMEISTER

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 19 MAGGIO

Ore 20:30

LE ARMONIE DI WERCKMEISTER

di Béla Tarr

(Werckmeister harmoniak, 2000, VO sott. in italiano)

Proiezione Gratuita

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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LE ARMONIE DI WERCKMEISTER 63 le armonie di werckmeister bela tarrproiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Girato in soli trentanove piani sequenza, “Le armonie di Werckmeister”, questa storia surreale e quietamente evocativa diretta da Bela Tarr, ci trascina armonicamente in un mondo apocalittico che si impregna della qualità nobilitante del bianco e nero e restituisce allo spettatore una visione corale ed estremamente misurata della conflittualità umana e della sua – purtroppo famosa – declinazione balcanica.

“Le armonie di Werckmeister” si ispira in primis ad un racconto dell’ungherese Laszlo Krasznahorkai: The melancholy of resistance, ma è anche guidato sul piano narrativo e poi sempre più in alto, fino al piano costruttivo e filosofico, dalle teorie del musicista barocco Andreas Werckmeister, che viene ricordato per il suo studio approfondito del sistema armonico accompagnato dalla radicata convinzione che la musica si legasse in maniera indissolubile alla creazione divina e alla sua perfezione.

Tarr costruisce dunque una complessa allegoria: in una città ungherese fredda e disgraziata, minacciata da un accadimento nefasto ed indefinito che poi prenderà la forma di una rivolta popolare, si consuma la semplice quotidianità del protagonista. L’apocalittica condizione prende una svolta inquietante quando un baraccone/circo ambulante si insedia nella piazza cittadina, forte della sua attrazione principale: una gigantesca balena accompagnata da uno strano essere deforme (il principe), che però non ci sarà concesso di vedere.

I piani simbolici si sovrappongono creando un’esperienza cinematografica complessa ma appagante. La balena potrebbe essere la rappresentazione concreta di un grande ideale, morto ma ancora in grado di influenzare la gente. Il principe è quella vocina inconscia che si agita dentro di noi, blasfema, a volte incomprensibile ma incessante: distruggi, conquista, usurpa, comanda.

Il regista ungherese ci propone anche una delle scene più forti e agghiaccianti che mi sia mai capitato di vedere: la distruzione di un ospedale e dei malati in esso ricoverati. La mattanza si consuma nel completo silenzio. Non un urlo, solo i colpi attutiti dei bastoni sui corpi inermi. Un vecchio, nudo e tremante ripreso frontalmente per pochi insostenibili attimi, calma gli animi e disperde gli aggressori.

La potenza rivelatoria dell’immagine, della musica, della metafora perfettamente armonizzate da Tarr in un’opera che ha l’inconsistenza di un’ombra ma la violenza catartica di un pugno, raggiunge livelli elevatissimi e ci lascia, infine, affascinati e confusi, a guardare dentro l’occhio vitreo di una balena pietrificata.

Matteo Ruzza (http://www.pellicolascaduta.it/)


Domenica 5 Maggio : OCCHI SENZA VOLTO // THE FACE OF ANOTHER

DOMENICA UNCUT

Domenica 5 maggio

Ore 18:30
OCCHI SENZA VOLTO (Les yeux sans visage)

di Georges Franju, Francia, 1960.

***
Ore 21:00
THE FACE OF ANOTHER (他人の顔 Tanin no kao)

di Hiroshi Teshigahara,Giappone, 1966.
(VO sott. in italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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OCCHI SENZA VOLTO 58 occhi senza volto Les yeux sans visage  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Un famoso e apprezzato chirurgo plastico sogna di ridare, con metodi poco consoni, il volto alla giovane figlia, i suoi tentativi non saranno coronati dal successo, e la ragazza non tarderà a vendicarsi del poco ortodosso genitore.

Ci sono pellicole che segnano un vero e proprio spartiacque per un genere cinematografico, precorrendo i tempi e rappresentando un modello da seguire per intere generazioni di cineasti. Occhi senza volto, per quel che vale, costituisce per il gotico europeo quello che King Kong rappresenta per il cinema d’avventura: una pietra miliare, un termine di paragone imprescindibile ed una fonte d’ispirazione fondamentale per chiunque abbia voluto cimentarsi con il genere negli anni successivi.

Quel che rende il film di Franju tanto importante, il motivo della sua consacrazione a “Totem” dell’horror europeo, è la cura quasi maniacale del dettaglio. Al di là del soggetto, già di per sé interessante, curioso ed originale, lo spettatore verrà rapito senza scampo da una fotografia incredibile (probabilmente uno dei B/N più belli della storia del cinema), un contrappunto musicale ambiguo, straniante e ossessivo e una sceneggiatura di ferro, curata da alcune delle menti più brillanti della letteratura Francese di genere del dopoguerra.

Fra richiami più o meno accennati all’espressionismo Tedesco e alle opere di Tourneur, citazioni e colpi di genio, quel che rimane è però l’essenza stessa del film, la domanda che ci porterà fin sulle soglie del finale catartico voluto da Franju, quasi uno studio sull’ambiguità dell’uomo nella sua forma più estrema e pericolosa: dove finisce l’amore di un padre e comincia un macabro gioco fra la vita e la morte?

(Enrico Costantino http://www.bizzarrocinema.it/)

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THE FACE OF ANOTHER 59  THE FACE OF ANOTHER  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

A causa di un incidente sul lavoro Okuyama rimane irriducibilmente ustionato, costringendolo a portare delle bende su tutto il volto. Alienato e senza più un viso, con l’appoggio del suo psichiatra Hari indossa una maschera realistica all’insaputa di tutti. Dove lo porterà la maschera? Ora che ha un volto può definirsi qualcuno?

In The Face of Another c’è tutta un’analisi profonda sulle implicazioni psicologiche e filosofiche di avere o non avere un volto. Uno spazio di pelle di pochi centimetri sopra il collo è fondamentale all’uomo. Un volto può infatti essere la prova della propria esistenza e identità, uno strumento di comunicazione delle proprie emozioni e di connessione con i propri simili, di mediazione tra la mente dietro di esso e il mondo di fronte. Il film si concentra su come l’incidente che lascia Okuyama (Nakadai Tatsuya) privo d’identità ma per il resto illeso, modifica profondamente i rapporti con tutti i suoi conoscenti. Come si siede in poltrona a casa sua, con la faccia bendata, sua moglie è tesa e nervosa in sua presenza, impossibilitata a scrutargli le espressioni, mentre il suo capo (Okada Eiji) non riesce ad affrontarlo in piedi nel suo ufficio.
In The Face of Another lo spettatore scorre sotto gli occhi la metamorfosi psichica e fisica di Okuyama nonostante il ritmo lento e i lunghi dialoghi. La trasformazione del protagonista è ben visibile nei rapporti con la moglie, lo psichiatra e la sua assistente.

La storia principale è intervallata da quella di Irie, (assente nel romanzo) una giovane e bella ragazza sfigurata per metà del suo viso a causa della bomba atomica (deducibile quando ricorda l’infanzia a Nagasaki). La storia parallela, stavolta è una donna dal volto rovinato, rappresenta senz’altro una narrazione alternativa.

Oltre all’analisi sulla natura dell’identità e del suo riflettersi sulla società, The Face of Another vanta una bellissima regia, con inquadrature insolite e la partecipazione di Takemitsu Tōru alla colonna sonora e Segawa Hiroshi come direttore della fotografia. Memorabili le scene girate all’interno della clinica psichiatrica, in cui i protagonisti si aggirano in spazi divisi tra vetri e pareti riflettenti e cambi di luci. Nakadai Tatsuya che interpreta magistralmente Okuyama è in ottima forma, assistito dall’altrettanto brava Kyō Machiko, in prestito dalla Daiei, nei panni della moglie e dallo psichiatra Hira Mikijirō.

Ingiustamente poco conosciuto dal grande pubblico The Face of Another è un vero pezzo di cinema.

(Picchi http://www.asianworld.it/)

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21 Aprile NABOER // DREAM HOME

DOMENICA UNCUT

Domenica 21 Aprile

Ore 18:30
NABOER

di Pål Sletaune, 2005.

(VO. Sott. italiano)

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Ore 21:00
DREAM HOME

di Ho-Cheung Pang, 2010

(VO. Sott. italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)

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NABOER 54 naboer proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub_Sparkly

Mai giocare con il fuoco, perché ci si brucia. In questa sua quinta pellicola il norvegese Pål Sletaune, considerato dalla critica uno dei registi più promettenti del panorama mondiale, scoperchia all’improvviso il famoso “vaso di pandora” che sarebbe bene tenere sempre chiuso. E quello che esce, è putrido (come l’odore acre che si sente nell’appartamento di John) folle (le sue continue allucinazioni) e violento (come i pugni che si alternano al sesso con la sua vicina Kim).

John è scovolto dall’abbandono della sua ragazza, ma quell’aria inquietante di indifferenza che ha sul viso serve solo a celare i primi sintomi dell’allucinazione, del delirio e infine della pazzia. Mostri che John rigetta all’esterno, immaginando che la violenza bruta che sente dentro non sia la sua ma quella di una giovane e sadica vicina di casa, che lo costringe a partecipare a una seduta erotica masochistica, un incontro di boxe su un divanetto d’entrata. Ma chi è Kim, in realtà? Cosa si nasconde nella casa labirintica in cui lei abita, assieme alla sorella, tra stanze sudice zeppe di oggetti inutili gettati alla rinfusa?

Naboer potrebbe essere definito un film a tratti “pulp”, ma anche un dramma psicologico e un thriller erotico politicamente e umanamente scorretto, dove il sangue e il sesso sono la chiave per capire l’origine della follia. Ma è anche una pellicola capace di mostrare fino a dove si può arrivare per amore. Si può amare anche fino alla pazzia e uccidere. L’amore non è sempre un sentimento pulito ed edificante, si può trasformare, e Sletaune lo dimostra, in un folle scenario di violenza e delirio dove con il patner si condivide tutto il marcio che si ha dentro. Per John infatti l’amore è un sentimento sporco, che procura piacere solo se uno dei due amanti ne esce “bruciato” e ferito. Il sesso è violenza crudele e l’eccitazione una pratica che si alterna ai pugni scagliati con violenza sul viso. Il sangue che esce dalle ferite uno stimolo vampiresco che crea assuefazione.

Naboer è anche un “viaggio all’inferno” rimbaudiano, dove le azioni dell’uomo possono toccare la perversione più assoluta: ma se per il poeta francese il ’battello ebbro’ portava all’illuminazione, per John è il biglietto di sola andata per un manicomio criminale.

(Silvia Vincis http://www.nonsolocinema.com/)

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DREAM HOME 55 DREAM HOME proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub_Antonio

“La casa è un diritto?

La forsennata corsa ad ostacoli di una giovane donna capace di tutto pur di ottenere la casa dei suoi sogni (con vista mare). Il film è anche un omaggio, solenne e allo stesso tempo psicotico, alla città di Hong Kong, ai suoi palazzi, alle sue case, ai suoi appartamenti minuscoli destinati a rimanere per molti giovani single mete irraggiungibili visti i prezzi altissimi di tutto il settore immobiliare!”

Ferocissimo thriller/horror, datato 2010, proveniente da Hong Kong che incastra, in una struttura da slasher, tematiche sociali di notevole spessore ed attualità. Nella fattispecie, si parla del boom edilizio che ha investito Hong Kong e dei prezzi vertiginosi che hanno acquistato gli immobili, spesso fortemente in squilibrio con l’effettivo tenore di vita dei cittadini. Ed è proprio il sogno della bella Cheng, umile addetta al call center di un’assicurazione, poter acquistare una casa con vista sul mare. E pur di non infrangere il suo sogno, la ragazza è disposta a fare di tutto…anche a far scorrere fiumi di sangue. Dotato di una struttura a flashback , che svela progressivamente le motivazioni dell’assassino, “Dream Home” si segnala come bizzarro splatter d’autore, dotato di una cura tecnica molto elevata che va di pari passo con la larvata critica al sistema politico-economico-sociale di Hong Kong. Originale nello spunto, non sempre omogeneo nello sviluppo ma dotato di grande impatto visivo e di un equilibrio (talvolta faticoso) fra violenza estrema e humor nero, il film è ben diretto da Pang Ho-Cheung che, oltretutto, non è nuovo a film dalla scottante tematica sociale.

La pellicola mette in scena personaggi fallimentari, schiacciati da un sistema impietoso ed accecato dal denaro, resi abulici da una totale mancanza di prospettive e da un materialismo incarnito nell’animo. Infine impossibile non segnalare gli omicidi che si susseguono nel corso della vicenda, particolarmente efferati ed elaborati visivamente, che annoverano coltellate, ferri da stiro in volto, stecche di legno acuminate infilate in posti improbabili, sventramenti e tutta una serie di altre cattiverie indicibili.

Esperienza visiva da provare.

(http://www.alexvisani.com/)

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[14 APR] Mika Kaurismäki

DOMENICA UNCUT

Domenica 14 APRILE

Ore 18:30

ZOMBIE AND THE GHOST TRAIN

di Mika Kaurismäki,Finlandia, 1991.

(VO sott. in italiano)

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Ore 21:30

ROSSO

di Mika Kaurismäki, Finlandia, 1985.

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
http://kinesistradate.wordpress.com/

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ZOMBIE AND THE GHOST TRAIN

ZOMBIE AND THE GHOST TRAIN

ZOMBIE AND THE GHOST TRAIN

Un mese nella vita di Antti, detto Zombie, congedato per infermità mentale dalla leva e dedito all’alcol e al basso elettrico. L’amico Harri gli offre l’opportunità di suonare nella sua avviata band: per coglierla, però, Zombie dovrà lasciare la bottiglia.

Chissà se Sorrentino ha mai visto questo semisconosciuto — quantomeno in Italia — film di Mika Kaurismaki, il cui protagonista è pressochè identico a quello messo in scena dal regista italiano per il suo This must be the place (2011). Ma Zombie, a differenza del personaggio che interpretà vent’anni più tardi Sean Penn, è tutt’altro che uno sprovveduto o un ritardato: lui la sa lunga e certo più di tutti quelli che lo circondano, è piuttosto un ragazzo che non vuole in alcun modo diventare adulto e che preferisce passare per squilibrato piuttosto che eseguire gli ordini altrui (l’episodio iniziale del servizio militare è emblematico del suo carattere ribelle per natura).

Un antieroe alcolizzato e innamorato del rock and roll: sembra un film di Aki, invece è di Mika, fratello maggiore del Kaurismaki che due anni prima aveva diretto Leningrad Cowboys go America, prima pellicola in cui compare, nella band del titolo, Silu Seppala, ovvero Zombie, il cui vero nome è in realtà Antti: sia per il personaggio della finzione (Zombie) che per l’attore (Silu). A confermare la vena in stile Aki, ecco inoltre che Mika utilizza come co-protagonista l’attore feticcio, favorito e grande amico del fratello minore: Matti Pellonpaa, qui meno lunatico del solito, in un ruolo di contrasto a quello del personaggio centrale. Il regista si occupa anche del montaggio, della produzione e della sceneggiatura (insieme a Pauli Pentti e a Sakke Jarvenpaa), mentre la fotografia è affidata a Olli Varja, al fianco di Mika fin dai suoi esordi.

La storia di Zombie è una piccola fiaba moderna, surreale quanto basta e laconica in una maniera tutta scandinava, perennemente alla ricerca di una sensazione più che di una morale, di un coinvolgimento emotivo anzichè di una stretta coerenza della trama.

(http://cinerepublic.filmtv.it/)

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ROSSO

ROSSO

ROSSO

Giancarlo Rosso (un grande Kari Väänänen, anche co-sceneggiatore) è un sicario della mafia, al quale viene assegnato l’incarico di uccidere una donna finlandese, che incidentalmente era una volta la sua donna. Riluttante, Rosso, parte dalla Sicilia per l’estremo Nord della tundra e della campagna finlandese, alla ricerca del suo obiettivo, Marja (Leena Harjupatana). Insieme al fratello di Marja, Martti (Martti Syrjä, il cantante degli Eppu Normaali), parte con una una vecchia macchina per ritrovarla, in un viaggio che non mancherà di rapine e fughe. Fra una citazione e l’altra della Divina Commedia, Rosso raggiungerà il suo destino.

Quinto lungometraggio di Mika Kaurismäki, è una commedia, che di divino ha ben poco. Qui i piedi sono ben saldi a terra. Un bel road-movie, attraverso le lande desolate del nord della Finlandia, Il film è recitato quasi interamente in italiano (eh si, Kari Väänänen recita in italiano, cavandosela anche egregiamente.

(http://www.asianworld.it/)

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14 Marzo : MANGIA IL RICCO / JOHN DIES AT THE END

DOMENICA UNCUT

Domenica 24 Marzo

Ore 18:30
MANGIA IL RICCO

di Peter Richardson, 1987.

Ore 21:00
JOHN DIES AT THE END

di Don Coscarelli,2012.
(VO. Sott. in italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
http://kinesistradate.wordpress.com/
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49 mangia il ricco eat the rich proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

 

 

 

MANGIA IL RICCO

Alex è un cameriere di colore e lavora in un ristorante di lusso a Londra. Per una inezia viene cacciato e si trova così senza un soldo e senza lavoro. Alex medita vendetta mentre il potente ministro della difesa, personaggio ambiguo e violento, conquista un crescente favore popolare. La situazione politica precipita e Alex decide allora di fare la rivoluzione con alcuni amici. Per prima cosa si impossessa del suo vecchio locale massacrandone i proprietari poi comincia a gestirlo in maniera piuttosto particolare.

 

 

 

 

 

 

 

 

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JOHN DIES AT THE END 48 John dies at the end Don Coscarelli proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

La Soy Sauce è una nuova potentissima droga in grado di rendere visibili creature provenienti da altri mondi. Molti suoi consumatori tornano tuttavia dai “viaggi” completamente cambianti e con sembianze niente affatto umane. Alieni minacciosi stanno infatti utilizzando i corpi dei giovani ragazzi tossici come veicolo per invadere la terra. Solo due giovani nerd sembrerebbero gli unici in grado di salvare le sorti dell’umanità…

Il nuovo film di Don Coscarelli (“Phantasm”, 1979, “Bubba Ho-Tep”, 2002) è denso di simbolismi, metafore, dadaismi, invenzioni e creature degne di un Salvador Dalì cinematografico quale mostra di essere nel dipingere (più che filmare) questo prodotto molto onirico e assai poco – strettamente – cinematografico.
Qual’è la differenza tra un film e un sogno? Già, bella domanda. O tra un film e un incubo, sarebbe meglio chiedersi. Ma, d’altra parte: qual’è la differenza tra un sogno e un incubo? Queste, e altre domande mi ha stimolato “John Dies at the End”, pellicola molto attesa con la quale apro con contentezza il nuovo anno di recensioni. Dico con contentezza perché Coscarelli ci stupisce davvero, anche con effetti speciali, ma soprattutto con una storia cui dovrebbe esser dato un premio solo per la sceneggiatura, un dipinto, come dicevo all’inizio, più che una “scrittura filmica”, fatto di pennellate evocative che sfumano i loro contorni da un’immagine all’altra, creando arcobaleni gocciolanti che diventano mostri alieni ragnosi e imputriditi, per poi trasformarsi in maschere grottesche alla Max Ernst. La storia in sè non interessa a Coscarelli, che forse è ispirato da un Borroughs, da un Lovecraft, ha letto il libro omonimo di Wong da cui trae la sceneggiatura, ma poi si differenzia da queste ispirazioni perturbanti-letterarie lanciandosi nel reef del suo immaginario inconscio portandosi dietro gli spettatori tutti all’inseguimento.

Ci troviamo nella provincia statunitense, in compagnia di due amici trentenni, Dave ( Chase Williamson) e John (Rob Mayes). John si imbatte in un gruppo di giovani ad uno sconclusionato concerto di un gruppo di provincia, e durante tale evento viene introdotto all’uso di una strana droga, la Soy Sauce, nera, petroleosa e improbabile sostanza iniettabile. Dave annusa l’imbroglio cosmico e rifiuta di assumerla, ma per sbaglio si punge con una siringa di John, e scopre così che gli alieni usano i corpi degli inetti umani per invadere la terra. Il film è un fuoco d’artificio semidelirante, deliberatamente autoironico in alcune sequenze (come quella in cui la maniglia di una porta si trasforma in un grosso pene), a tratti difficilmente comprensibile nei suoi sviluppi e nelle sue contorsioni nelle quali domina sempre la visionarietà di un regista che se ne frega bellamente di tutti gli stilemi drammaturgici perturbanti e horror. Coscarelli cucina con la sua fantasia allo stato puro, mescolando ingredienti e provando nuove salse in un turbinio continuo di espedienti e inquadrature che non stancano mai, nonostante i 99 minuti di pellicola.

Forse alcuni dialoghi avrebbero potuto essere in verità debitamente accorciati, e poteva forse avere una funzione più pregnante anche la cornice narrativa del drugstore nel quale Dave racconta la sua incredibile storia a un ambiguo giornalista, un Paul Giamatti dannatamente sornione, come lo Stregatto di Alice. Eccola qui d’altronde l’associazione giusta: “John Dies at The End” è la versione maschile (omosessuale?) di “Alice in wonderland” di Lewis Carrol, una specie di “giorno del non-compleanno” del sottogenere a noi caro, dove tutto può accadere.

Non dobbiamo certo nasconderci che “John Dies at the End” è un film difficile, sicuramente astruso per certi palati abituati ai soliti plot horror, così rassicuranti nella loro cornice di inquietudini costruite a tavolino dai sempiterni Michael Bay and company.

Qui siamo su un altro pianeta, insieme ad Alice, appunto, col Cappellaio Matto, lo Stregatto e altro ancora, senza che ci vengano tuttavia risparmiate scene gore e pennellatine alla Lynch (come la protesi alla mano della giovane Amy). Come può mancare, in questo contesto “il portale” verso un altrove alieno? Lo troverete, naturalmente, ma naturalmente uguale e insieme diverso da come ve lo aspettereste. “John Dies at The End”: oggetto molto bizzarro e proprio per questo da vedere e studiare con attenzione e cura.

(http://psicheetechne.blogspot.it/)


17 Marzo

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 17 MARZO

Ore 18:30

GUMMO

di Harmony Korine, 1997.

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Ore 21:00

BULLY

di Larry Clark, 2001.
(VO sott. in italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
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GUMMO 46 gummo  film  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Xenia, Ohio. Un tornado ha distrutto gran parte delle abitazioni e decimato la popolazione (fatto realmente accaduto, siamo nel 1970). Anni dopo nulla è cambiato. Il trauma psicofisico causato da un evento naturale che ha il sapore di un diluvio universale mancato (punizione divina?) lascia nelle mani dei bambini una cittadina sperduta nel midwest statunitense.

Harmony Korine esordisce alla regia due anni dopo la convincente (e controversa) sceneggiatura di “Kids” e si distingue subito per originalità e per esplicita noncuranza delle regole del cinema mainstream americano. Un grande numero di tableaux autoconclusi e disturbanti si sovrappongono l’uno all’altro fino a formare una costruzione confusa e spiazzante. Utilizzando le prerogative del cinema direct, l’improvvisazione, la macchina a spalla, una colonna sonora slegata e frammentaria, un montaggio non lineare e alogico, il giovane autore sfida il pubblico a dimenticare la rassicurante confezione estetico-narrativa della produzione hollywoodiana e ad addentrarsi in un mondo crudele e amorale, grottesco e marginale ma sempre, e qui risiede la sua forza, credibile.

Le fantasie più assurde e animalesche di Korine non fanno che trarre spunto dalla vita reale, dal white-trash nichilista (e inconsapevole) delle periferie cittadine, dall’ignoranza dilagante di frange sempre meno marginali della popolazione americana. I bambini-padroni di Xenia(che uccidono gatti, sniffano colla, compiono atti vandalici di ogni sorta) saranno gli adulti di domani. I pochi adulti rimasti non si distinguono dai bambini per ferocia e insensatezza.

La visione è raccapricciante ma supportata da una riflessione disarmante: la mancanza di educazione e cultura non può che generare una recessione sociale e una bestialità mostruosa.

L’atmosfera in equilibrio fra un surrealismo decadente e un realismo grottesco sembra minacciata da una forza invisibile e malvagia, opprimente (le luci fluorescenti usate sul set contribuiscono visivamente). Come se un nuovo uragano fosse pronto a radere al suolo questa realtà autogestita e fallimentare.
Si lascia la sala con un senso di indefinito fastidio, nauseati dalle aberrazioni che l’uomo stesso può provocare, come se lo spleen in salsa trash in cui siamo stati immersi per 90 minuti si fosse impadronito di noi, insinuandosi nelle pieghe della nostra coscienza. Un film che lascia il segno nel bene o nel male.

Curiosità: Gummo è il soprannome di uno dei cinque fratelli Marx. Il meno conosciuto, dal momento che abbandonò quasi subito la recitazione e si dedicò alla gestione di un’agenzia teatrale.

(Matteo Ruzza http://www.pellicolascaduta.it/)

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BULLY 47 bully larry clark  film  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Larry Clark è indubbiamente un artista scomodo, anche perché da decenni sente l’urgenza di svelare il vero volto, quello votato all’annichilimento di sé, di una parte dei giovani americani.

Questo Bully è il suo terzo lungometraggio e narra di un gruppo di amici, tra i diciotto e i vent’anni, che decidono ad un certo punto di uccidere un loro coetaneo per non subire più le sue angherie e malvagità. Il ritratto, quindi, di giovani di buona famiglia, fottuti motherfuckers senza alcun obiettivo nella vita, che non sia quello della soddisfazione del piacere istantaneo, dissipati tra metamfetamine, sesso meccanico e incomunicabilità.

Un ritratto purtroppo non distante dalla realtà delle nostre metropoli contemporanee…Clark all’epoca dichiarò: “Bully non è un film ipocrita. E poi, ormai, i crimini dei giovani, gli omicidi con moventi distorti di amici o genitori, accadono in tutto il mondo. E’ inutile continuare a fingere che siano casi isolati o estremi…Mi interessa molto capire le reazioni che il mio film provocherà in altri paesi dove, ne sono convinto, ci sono tanti ragazzi come quelli del mio film. Non cercavo solo lo scandalo: volevo non falsificare una parte precisa della realtà che ci circonda e che dobbiamo guardare senza i falsi sogni e le torte di mele delle favole di Hollywood”.

La rappresentazione della superficialità, dell’indifferenza e dell’inconsapevolezza dei protagonisti del suo film è un atto d’accusa deciso contro la capacità educativa di una società, la nostra, che ha ormai in mente solo il profitto e il consumo. Il film è girato con uno stile secco e distaccato, la storia è tratta da un episodio di cronaca realmente accaduto, gli attori stanno recitando fino ad un certo punto (l’attore Brad Renfro è recentemente scomparso a causa di un overdose…). Ciò che colpisce allo stomaco lo spettatore è l’assoluta mancanza di coscienza morale dei giovani protagonisti, derivante però dal totale fallimento dell’educazione impartitagli da genitori assenti e lontani anni luce dalla vera realtà dei loro figli.

La geniale sequenza finale del film è paradigmatica di tutto questo, mostrando i ragazzi, durante il processo, ignari di ciò che gli accadrà tanto sono chiusi in un universo autoreferenziale e avulso dalla realtà circostante ed i parenti, tra il pubblico, che li osservano inebetiti come se li conoscessero solo in quell’istante veramente per la prima volta.

Colonna sonora da brividi con Cypress Hill, Eminem, Fatboy slim, Thurston Moore, Tricky…Indigesta, ma preziosa, gemma inedita in Italia, assolutamente da recuperare.

(http://scaglie.blogspot.it/)

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3 Marzo

DOMENICA UNCUT

Domenica 3 Marzo
NOBORU IGUCHI PAPA!

Ore 18:30
ZOMBIE ASS : TOILET OF THE DEAD

di Noboru Iguchi, 2011.
(VO sott. in italiano)

Ore 21:00
DEAD SUSHI

di Noboru Iguchi, 2012.
(VO sott. in italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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KINESIS via G. Carducci N.3
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NOBORU IGUCHI è il maestro riconosciuto dei B-movies trash. Una sorta di Ed Wood in salsa splatter-demenziale. Come spesso accade a chi estremizza i suoi prodotti e trasmette al pubblico il divertimento che prova a realizzarli, è ormai un regista di culto e i suoi film girano i festival di mezzo mondo. Anche se talvolta le sue trovate possono dar fastidio o provocare addirittura la nausea, non si può negare che si sia in presenza di un talento inventivo, seppur al servizio della distorsione visiva e comunicativa. A fianco di una lunga esperienza nel campo degli Adult Video, in cui ha fatto film su quasi ogni aspetto delle perversioni sessuali, Iguchi ha realizzato – spesso in cooperazione con Nishimura Yoshihiro, mago degli effetti speciali e più volte regista di film analoghi di grande successo – vari film che uniscono sesso, horror, splatter, fantastico e ogni possibile genere e contaminazione di genere.
Dead sushi, realizzato l’anno dopo il successo della commedia horror Zombie Ass, definita “escatologica”, in cui gli zombie escono dal water, è un film che non può mancare in una maratona di mezzanotte degna di questo nome.

[Franco Picollo http://sonatine2010.blogspot.it/]

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ZOMBIE ASS : TOILET OF THE DEAD 42 zombie ass  film  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Zombie Ass di Noboru Iguchi racconta di un gruppo di amici che parte in vacanza nei boschi. Niente di nuovo, dite? Beh si, ma questa volta il film non si prende sul serio neanche per cinque minuti e fa una delirante variazione sul tema. Una ragazza del gruppo ingerisce un verme trovato in un pesce per restare magra (???). Subito dopo il gruppo viene aggredito da uno zombi che li costringe a fuggire verso un mucchio di costruzioni e, soprattutto, verso un bagno, visto che l’aspirante modella ha dei crampi orribili. Malgrado le condizioni igieniche degne del bagno di Trainspotting, la giovane decide di usarlo comunque e nel mentre qualcosa si muove sotto di lei…

Durante la fuga da una prima ondata di zombi maleodoranti e ricoperti di liquami, i cinque si rifugiano in casa dello strano Dr. Tanaka e di sua figlia Sachi. Inizia l’assedio e, a garantire una buona dose d’azione, c’è la protagonista che padroneggia le arti marziali.

Delirante, imbarazzante, divertente, spesso di pessimo gusto, con brutti effetti speciali e un bodycount prevedibilissimo, il film non delude le aspettative di chi decide di passare la serata guardando qualcosa dal titolo così improbabile. Tutti gli stereotipi jap del genere sono rispettati: bondage, divise da studentesse tagliate in punti chiave, mostri vermiformi e fallici, scienziati pazzi, ecc. Il regista ha dichiarato di voler fare un film con persone infettate da parassiti e con belle ragazze che “fanno aria”: un proposito infantile su carta, ma ben realizzato e divertente.

Anche per gli standard giapponesi, questo film è estremo e non è certo adatto a chi si scandalizza o si schifa facilmente. A chi, invece, piace il genere il consiglio è di vederlo assolutamente: molto splatter, divertente, con belle scene di erotismo soft e un combattimento finale ancora più delirante del resto del film…

Zombie Ass è perfetto per una serata fra amici con un buon quantitativo di birra…

(DRIVER http://www.splattercontainer.com/)

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DEAD SUSHI  43 dead sushi  film  proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

E se fosse il Sushi ad azzannare voi?

Noboru Iguchi ci svela un segreto spaventoso: anche il Sushi ha un’anima, dei sentimenti, una dignità. E soprattutto anche il Sushi ha fame, fame di Sushi Umano!!! Dopo aver visto il Trailer di Dead Sushi non potrete più guardare allo stesso modo un piatto di questa tipica specialità giapponese…il terrore che uno di quei bocconcini colorati si animi e vi azzanni la gola sarà troppo forte. Lo so. I ristoranti giapponesi doteranno i propri clienti di giubbotti di kevlar ed elmetti antiproiettile e, fra le norme, oltre ad assicurarvi che il pesce con il quale è stato realizzato il sushi è freschissimo, i proprietari dei locali dovranno garantirvi che il Sushi è stato ucciso prima di essere servito in tavola.

Lo so. Avrete paura.

Grazie Noboru Iguchi, maestro di saggezza, non vediamo l’ora di goderci questa tua nuova opera, un capolavoro annunciato.

Recitano, combattono, mangiano e uccidono Sushi in questa pellicola Rina Takeda e Shigeru Matsuzaki…Dead Sushi!!!

(Actarus http://www.splattercontainer.com/)

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DOMENICA 3 FEBBRAIO

DOMENICA UNCUT

Domenica 3 Febbraio

ore 18:30

TOKYO!

di M. Gondry, L. Carax, Joon-ho Bong, 2008.

(VO sott. in italiano)

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Ore 21:00

HOLY MOTORS

di Leos Carax, Francia, 2012.

(VO sott. in italiano)

PROIEZIONI GRATUITE

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
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HOLY MOTORS34 b tokyo carax proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Trama:
In una città sovraffollata, dove le strade si intrecciano e i palazzi si sviluppano in tutte le direzioni, una ragazza trova il modo di rendersi davvero utile trasformandosi in una sedia, un uomo dall’aspetto mostruoso emerge dalle fogne e terrorizza la città e un eremita urbano rompe il proprio isolamento scoprendo però che tutti gli altri hanno fatto come lui.

Tre gaijin (stranieri) raccontano la città emblema del Giappone: Tokyo, paradigma del progresso postmoderno delle “civiltà del nord” e allo stesso tempo emblema del paradosso che le caratterizza. Nel parossismo del traffico, della folla e delle luci prendono corpo tre storie ricche di temi densamente nipponici e al contempo universali, quantomeno per chi appartiene alla cultura delle metropoli.

La domanda da cui tutti partono è: sono gli uomini a dare forma alle città o viceversa? Interrogandosi sul rapporto fra uomo e spazio e fra uomo e uomo, tutti e tre i registi sono approdati al racconto di storie surreali ed estreme. In un mondo in cui si ha ragione d’essere per quello che si fa, una giovane ragazza senza ambizioni si sente davvero utile solo quando kafkianamente un giorno si trasforma in una sedia. Se improvvisamente un essere mostruoso scombussola lo status quo con la sua carica anarchica, il sistema lo neutralizza trasformandolo in icona mediatica. Quando l’umanità si trasforma in un agglomerato di monaci che non hanno alcun contatto fra loro, ci vuole un terremoto, forse quello definitivo, per rianimare i sentimenti originali dell’uomo in quanto animale sociale. In tutti i casi, il punto di forza è l’immagine. La stessa estetica accurata caratterizza infatti i tre capitoli che compongono il film, per quanto declinata in tre stili diversi.

Le firme dei tre registi sono riconoscibili, eppure in tutta l’opera si respira un gusto visivo molto giapponese. Nell’episodio Interior Design, per fare un esempio, la rappresentazione della trasformazione in sedia della protagonista è sorprendente e marcatamente gondriana, mentre la sequenza in cui la coppia discute, girata con un lungo carrello all’indietro, ha la severità e il realismo dei classici nipponici.

(Francesca Arceri http://www.hideout.it)

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HOLY MOTORS 35 holy motors carax proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

Trama:
A bordo di una lunga limousine bianca Oscar si reca ogni giorno ai suoi numerosi appuntamenti di lavoro: la sua professione è vivere le vite degli altri, una dopo l’altra, come fulminei episodi di un film collettivo. Nel suo camerino di bordo si trasforma in banchiere, padre di famiglia, lottatore, assassino, troll, anziano morente; ma chi è Oscar veramente in un mondo in cui tutta la realtà è virtuale e ogni vita è una pantomima?

Il cinema è una grande macchina per produrre sogni e visioni che ci creano e ci trasformano, un veicolo capace di intervenire nei processi di identificazione che fanno di ogni soggetto ciò che è, fornendogli una “identità”.

Oniricamente, Leos Carax prende alla lettera questa idea e in Holy Motors ci trasporta per le strade di Parigi all’interno di una carnevalesca limousine a bordo della quale il signor Oscar, figurante esistenziale, ha il suo ufficio-camerino. Di lavoro Oscar si mette nei panni degli altri, interpreta episodi di vite altrui, vive vite, identità, sempre assorbito nel suo ruolo, apparentemente immune agli urti esistenziali e addirittura alla morte che non è mai la sua, è sempre cosa d’altri e comunque sembra sempre una messa in scena. E come non gli appartiene nessuna delle morti che interpreta, non gli appartengono veramente neanche le vite che recita così bene nell’inanellarsi frenetico dei suoi “appuntamenti di lavoro”.

Cosa resta allora dell’identità di un individuo se ogni azione che compie richiede di indossare una maschera e di interpretare un ruolo scimmiottando modelli prefabbricati in serie? Dove sta la realtà se le parole che pronunciamo sono sempre la ripetizione di qualcosa che è già stato pensato e scritto in un copione, se le forme e i generi attraverso cui il nostro corpo e il nostro linguaggio si esprimono sono già state concepite e ci condizionano? Forse che un incidente, un malessere fisico, un sintomo incontrollabile possono permettere all’esistenza e al desiderio di ognuno di noi di emergere nella loro singolarità?

Attraverso un dispositivo mesmerico di episodi in successione (con tanto di folle entracte), Carax porta in scena la sua nevrosi antisociale e denuncia la nostra capacità opportunistica e menzognera di giocare con il sembiante, di indossare delle maschere, di trasformarci in fantasmi capaci di rispondere alle aspettative altrui. Complice dell’impresa, lo straordinario e mostruoso attore-feticcio Denis Lavant, che assume sulle sue spalle (dis)umane tutto il peso delle trasfigurazioni linguistiche e formali di Holy Motors insieme ad alcune presenze-apparizioni eccezionali: Michel Piccoli, Eva Mendes e Kylie Minogue in una commovente versione Jean Seberg.

Precinema, musical hollywoodiano, fantascienza, film d’azione, computer grafica, animazione e citazioni infinite danno forma a questo pazzo metacinema in cui trova ampio spazio anche l’autocitazione attraverso, tra l’altro, il candido e infernale signor Merda apparso per la prima volta in uno degli episodi del film collettivo Tokyo!. Nel delirio della finzione che sfuma nella realtà, ci accompagna costantemente uno scricchiolio, forse della barocca sala cinematografica su cui un Carax gran manovratore veglia mentre gli spettatori assistono alla partenza di una grande nave da crociera, o forse di quella stessa sala/nave su cui ci troviamo noi a vagare ciechi nella notte.

(Silvia Nugara http://www.cultframe.com)

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Domenica 13 Gennaio

DOMENICA UNCUT

Domenica 13 gennaio

Ore 18:30
KURONEKO

(藪の中の黒猫, Yabu no Naka no Kuroneko) di Kaneto Shindô, giappone, 1968.
(V.O. sott. in italiano)

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Ore 21:00
ONIBABA – Le assassine

( 鬼婆) di Kaneto Shindō , Giappone, 1964.

 

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PROIEZIONI GRATUITE

Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
http://kinesistradate.wordpress.com/

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KURONEKO

KURONEKO

KURONEKO

Un gatto nero (kuroneko), occhi gialli, magnetici, pelo brillante, compatto, appare e scompare misterioso in questo bakeneko eiga (film di gatti fantama), un horror liberamente ispirato a “Il ritorno del gatto”, favola giapponese del repertorio popolare che presta a Shindo Kaneto l’occasione per una storia intrisa di magia e mistero, realtà e fantasia, effetti speciali che scuotono con irruzioni fantasmatiche le solide certezze di una ripresa naturalistica, fatta di radure silenziose, chiome gonfie di alberi ondeggianti, labirintico incrocio di fusti di bambù nella foresta attraversata dai samurai.

Il nero è protagonista, come in ONIBABA (1964), attenuato da una ricca gamma di grigi che sfumano in trasparenze lattiginose e fluttuanti nei costumi delle due protagoniste
L’epoca è la stessa, un Giappone medievale devastato da guerre di clan, percorso da manipoli armati di ronin disperati alla ricerca di cibo e razzie, donne rimaste sole in un mondo che le stupra, le costringe alla fuga e infine le trasforma in demoni assetati di vendetta.

ONIBABA e KURONEKO nascono da identica matrice, pur nello sviluppo diverso delle vicende raccontate. Nel primo le parole della didascalia d’apertura, “Un buco profondo e nero la cui oscurità è arrivata dalla notte dei tempi fino ai nostri giorni”, preparavano la caduta finale verso l’inferno delle due donne, culmine di una fuga travolgente chiusa dall’urlo straziante della vecchia: “Sono un essere umano!”. Qui l’inferno è il regno di divinità maligne con cui le due donne hanno stipulato un patto diabolico: uccidere tutti i samurai e succhiarne il sangue alla gola, trasformandosi in felino nero miagolante durante l’amplesso a cui li hanno attirati con seducenti evoluzioni.
Il martellare delle percussioni rompe silenzi profondi, musica concepita come pensiero unico che impregna di sé tutti gli strumenti in un crescendo orgiastico, ma la spettralità dell’elemento onirico/fantastico lascia spazio anche alla dolcezza di momenti elegiaci che in ONIBABA sono assenti, annullati dalla misura estrema di un racconto teso, lancinante, come avviluppato su se stesso, che non consente soste e trova in questo la sua straordinaria forza.

Il Kaidan eiga classico, modello narrativo di matrice Tokugawa (1603-1867), in cui convivono realtà fisica registrata con cura calligrafica ed elementi soprannaturali resi in chiave allegorica, trova in KURONEKO una realizzazione più puntuale, gli stilemi rientrano nel solco della tradizione narrativa giapponese più ortodossa, ma Shindo appartiene a quella generazione “di mezzo” che, come i suoi Maestri, non rinuncia a porsi con occhio critico di fronte alla realtà, proiettando sullo sfondo della grande Storia vicende individuali di vita e di morte, sesso e paura del soprannaturale, uomini e donne ridotti alla pura sopravvivenza dai disastri della guerra, dannati della terra e potenti signori che li tengono in ostaggio in un mondo da cui sembra sparita ogni pietà

(Paola Di Giuseppe – Indie eye STRANEILLUSIONI)

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ONIBABA 31 onibaba proiezione domenica uncut cineforum kinesis tradate varese cineclub

…2 uomini in un canneto, fuggono da qualcuno, prede di una battuta di caccia. Dopo titoli di testa con musica jazz si passa a musica incessante, durante questa scena, da Kabuki, tamburi risuonanti eco con delle urla umane, il tutto è spaventoso e immediatamente si piomba in un’atmosfera da vita brutale e selvaggia.

Sono 2 cacciatrici. Per gli uomini non ci sarà pietà, saranno uccisi e gettati in un pozzo che fa da fossa comune, dopo essere stati spogliati di tutto. Uccisi per un sacco di miglio o riso, tanto paga il ricettatore, tanto occorre per sopravvivere. Si ha carne quando capita, un uccello dal canneto o un pesce dal fiume da arrostire. Il Giappone medievale è in guerra, 2 fazioni si contendono il regno ma sembra un tutti contro tutti. Le vittime erano 2 soldati in fuga, passati da una battaglia ad una trappola. Tornerà dalle donne un “loro” uomo, un vicino, non il loro figlio o marito.

Quel pozzo è il simbolo dell’animalità che insorge dalla profondità più nera dell’animo umano e della storia stessa dell’umanità. Umanità spazzata continuamente dal peso della violenza. Quel canneto mai domo, costantemente preda del vento, è una furia. Non c’è amore, solo sesso mascherato come tale, istinto irrefrenabile per la giovane donna e l’uomo superstite, non per questo meno caldo e sensuale. E’ qualcosa che sopravvive alla barbarie.

E’ la fede che cessa d’esistere. Dove i bisogni primari assillano non c’è spazio per il superfluo, però un legame rimane con lo spirito umano: la preoccupazione di comportarsi “correttamente”, il senso di appartenenza alla terra e ad un disegno più grande governato da leggi naturali, il timore che arrivi un demone a punire. La donna più anziana farà leva su questo per non perdere la giovane a vantaggio dell’uomo. Un piano perfetto ma causa-effetto sarà implacabile, le si ritorcerà contro come nemmeno poteva immaginare.

Film di vita rasente la morte ad ogni istante. Non la trama è essenziale, ma le immagini, ed i suoni che le accompagnano.

Olimpo degli Olimpi. Magia pura d’un’arte non classificabile in occidente. Imperdibile!!!

(Robydick – http://robydickfilms.blogspot.it/)

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[25 NOV] AUDITION // KOTOKO

DOMENICA 25 NOVEMBRE

Ore 18:30

AUDITION di Takashi Miike, Japan,1999.

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Ore 21:30

KOTOKO di Shinya Tsukamoto , Japan, 2011.
(VO Sott. in Italiano)

 

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
PROIEZIONI GRATUITE

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AUDITION

Aoyama, vedovo e con un figlio a carico, vorrebbe trovare una donna da sposare. Il suo amico, produttore cinematografico e televisivo, lo convince a cercarla con l’ausilio di una falsa audizione per un film che in realtà non verrà mai realizzato. Cosi’ Aoyama accetta e, dopo aver visto varie candidate, rimane colpito dall’eterea ed androgina Asami. Costei sembra perfetta: accetta il corteggiamento dell’uomo, è dolce e servile, amorevole e comprensiva. In Aoyama nasce un’attrazione profonda ed un amore ossessivo.

Ma chi è in realtà Asami ? Un vortice di orrore e dolore sconvolgerà la vita di Aoyama. “Audition” è un film profondo ed inquietante che si divide in due parti nette. Nella prima, nonostante ci sia un filo tagliente di tensione in sottofondo, ci troviamo in una situazione di apparente calma in cui sboccia una storia d’amore. Nella seconda, improvvisa e debordante, l’orrore brutale ed il dolore fisico la fanno da padroni, esplodendo in un climax altamente disturbante.

Miike intesse una vicenda con personaggi densi di contrasti che riflettono in se stessi tutti i forzati “tradizionalismi” della società nipponica e tutta la voglia di valicare i tabù segretamente repressi. Vittime e carnefici si confondono, esattamente come realtà e dimensione onirica all’interno del film. Amore diventa sinonimo di distruzione, disgregazione, piacere e dolore fusi assieme. L’aspetto tecnico del film è praticamente impeccabile con montaggio, fotografia e soprattutto attori eccellenti.

La parte finale della pellicola (grazie all’uso perfetto della soggettiva e della pseudo-soggettiva) metterà a dura prova lo stomaco e i nervi dello spettatore, lasciando uno stato d’inquietudine che perdura (almeno per me, è stato cosi’) oltre la visione del film. Ispirato ad un romanzo di Ryu Murakami.

(alexvisani.com)


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KOTOKO

Il mondo per Kotoko non è uno solo, ma uno spazio in cui due diversi piani scivolano fianco a fianco imponendo ai suoi occhi di vedere due facce della stessa persona. Vedere doppio non è materia d’ubriachezza o d’alcol, Kotoko vede di ogni persona il suo secondo, spesso tutt’altro che amichevole, ma è impossibile distinguere il vero dal falso: difendersi da chi l’attacca la costringe a cambiare quartiere di volta in volta, per il bene di se stessa e di suo figlio Daijiro. La vita è insopportabile, circondata dal chiasso generato dalla sua mente e dai pianti del bambino, ma il suo corpo continua a sanguinare ogni volta che lo viola con una lama, urlandogli “Vivi!”. Cantare è l’unica cura ai Doppi, il mondo diventa così uno solo, ma è quello giusto?

Ispirato anche in parte alla vita della stessa cantante, Kotoko è in parte biopic, il più coraggioso ed angosciante mai scritto per il Cinema, diretto con una maestria che ricorda i tempi della meraviglia punk Tetsuo, maturata in una consapevolezza ed un potere espressivo che si riassume nella scena d’apertura e di chiusura, gemelle di pura bellezza cinematografica. Una danza di fronte al mare ed una danza nel mare che l’invade, la protagonista Kotoko, visitata dal distaccarsi d’un mondo rispetto all’altro, non è più nel potere di distinguere il mare dalla terra, il male dal bene ed il tempo che fu dal presente.

Tutto è cancellato dal terrore di un pericolo costante, insediato dentro la propria follia o nella sopportazione dello scrittore Tanaka (lo stesso Tsukamoto), valvola di sfogo per la rabbia e la pazzia di chi sarebbe disposto a tutto pur di evitare sofferenza e miseria al proprio figlio/compagno. La paura di una guerra, secondo il regista, la paura di un assalto da parte del nemico sotto la pelle di chi crediamo sia nostro vicino e compagno d’avventura e sventura, il vivere costante in un’inquietudine trasmessa per filo e per segno allo (s)fortunato spettatore, immerso in un trauma immaginifico che è come l’affogare nell’acqua per un pesce che ha paura del suo stesso elemento.

Kotoko si iscrive per diritto nel registro dei grandi capolavori del cinema giapponese, con la sua sapiente e crudele visione, e delle grandi coppie attore/regista, la quale in questo caso va oltre il semplice scambio tra dietro e davanti la macchina da presa, ma si mescola in un impasto che sgretola il muro di separazione: verità e realtà nascono da un processo che inizia con una macchina da presa tremante spinta a riprendere qualcosa che è già stato ed allo stesso tempo non è mai stato. Un’esperienza unica e personale.
Fausto Vernazzani (http://cinefatti.wordpress.com/)


11 Novembre // Sound Of Noise // Ex Drummer

DOMENICA UNCUT
DOMENICA 11 NOVEMBRE

ORE 18:30
SOUND OF NOISE di Ola Simonsson e Johannes Stjärne Nilsson, 2010.

(VO sott. In italiano)
ORE 21:00
EX DRUMMER di Koen Mortier, 2007.

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
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SOUND OF NOISE
Nel 2001 i due registi svedesi Ola Simonsson e Johannes Stjarne Nilsson girano un cortometraggio dal titolo “Music for one apartment and six drummers” [VIDEO]. La storia? Cinque uomini e una donna salgono su un’automobile e raggiungono un appartamento. Una volta dentro cominciano a suonare mobili, elettrodomestici, soprammobili, utensili da cucina e tutto quello che capita loro sotto mano. I sei continuano imperterriti, almeno finché non entrano in casa i veri proprietari dell’appartamento.

La storia, questa volta, parte da più lontano: Amadeus Warnebring discende da un’importante famiglia di musicisti, tra compositori, pianisti e direttori di orchestra. Lui invece fa il poliziotto e, per la precisione, è responsabile dell’antiterrorismo. Amadeus si tiene ben lontano dalla musica, ma quando la musica diventa un caso da seguire e i musicisti diventano dei colpevoli da arrestare, le cose per lui cambiano. La città è infatti presa sotto assedio da sei musicisti che improvvisano dei veri e propri atti terroristici suonando in luoghi non convenzionali e con strumenti non convenzionali. Il loro scopo e di scoprire e far riscoprire il suono della città, quello di Amadeus è di catturarli.
Forse.
Nonostante il punto di inizio sia quanto di più lontano dalla narrativa cinematografica intesa in senso stretto (“Music for one apartment and six drummers” è molto più simile ad un videoclip che ad un cortometraggio), “Sound of noise” si regge in maniera ottima sulle proprie gambe grazie ad una storia naif e dal ritmo travolgente. L’idea che conquista è quella di trasformare questo film in un classico heist-movie, dove al posto delle rapine, però, ci sono attacchi di guerriglia musicale assolutamente geniali, che oscillano tra la poesia (Electric love), la dissacrazione (Money 4 U, Honey, Doctor doctor give me gas (in my ass)) e la rivendicazione artistica (Fuck the music (Kill! Kill!)). E’ questo il difficile equilibrio su cui si muove il film, perennemente in bilico tra il serio e il faceto, tra la riflessione e il cazzeggio.

Ola Simonsson e Johannes Stjarne Nilsson dirigono un film dal ritmo perfetto, stralunato ma solido e solo apparentemente superficiale. “Sound of noise” è infatti un film musicale davvero originale, che porta un nuovo punto di vista (anche cinematografico) sul genere.
(http://www.pellicolascaduta.it/)

EX DRUMMER  

Tratto dal romanzo di culto di Brusselmans Herman , “Ex Drummer” è una produzione belga del 2007 che s’immerge nel mondo dello “scum punk” con il vigore della commedia nerissima e surreale, intrisa di atmosfere luride e carica di splatter .

Uno scalcinato trio di disabili (uno stupratore con problemi di articolazione labiale, un tossico mezzo sordo ed un ragazzo gay dal morboso rapporto materno) ha intenzione di creare un band punk con cui partecipare al più importante raduno rock fiammingo. In cerca di un batterista per il gruppo i “nostri” si rivolgono a Dries, scrittore cinico e di grande successo, poiché sono convinti che un elemento popolare potrebbe garantire fortuna alla band. Dries accetta e s’inventa come personale handicap quello di non saper suonare la batteria (!!?). Nascono i “The Feminist” e la discesa nel vortice del degrado e della violenza ha inizio.
Dries, dall’alto della sua ricchezza, cultura ed intelligenza diverrà ben presto il leader della band e sfrutterà questo potere a suo piacimento, senza pietà per nessuno…

Shockante, politicamente scorretto, sfrenatamente nichilista, “Ex Drummer” è un film che vive di una narrazione sincopata, fatta di situazioni che sovente calcano la mano nello squallore generato dai più bassi istinti umani. E proprio come feroce (anche se talvolta si subodora furbizia da parte del regista Mortier) critica nei confronti dell’uomo e della società si pone l’opera in questione che mostra un mondo ai margini di tutto, dove l’unica possibilità di fuga è rappresentata da una musica che lascia esplodere rabbia, frustrazione e disperazione. In questo quadro degradato, dove droga, violenza e sesso primitivo paiono rappresentare il linguaggio comune, si muove la figura cinicamente borghese e arricchita di Dries che, quasi a voler distruggere le proprie origini proletarie, sfrutta il potere per assoggettare i più deboli, da utilizzare come cavie per “ispirazione da scrittore” o più semplicemente come oggetti di mero divertimento e sfogo.

Koen Mortier, all’esordio nel lungometraggio, fornisce una prova di regia molto tecnica e virtuosa seppur ammanti il suo stile di sporcizia ed utilizzi, a tratti, la camera a spalla in modo epilettico e nauseante. Sangue, omicidi, amputazioni, deiezioni, sesso brutale ed altri orrori assortiti vengono sparati in faccia allo spettatore in grande quantità e rendono talmente smaccata la violenza da avvicinarla a quella di cartoon malato e pornografico.

Anche per questo motivo “Ex Drummer” funziona più nei momenti estremi che nella sua interezza e non fornisce (volutamente) alcun trasporto empatico nei confronti dei personaggi che lo affollano. Efficace la colonna sonora che annovera numerose band punk e che vanta una spiritata cover di “Mongoloid” dei Devo e devastante la rappresentazione finale del raduno rock fiammingo, con i vari cantanti che si comportano in perfetto stile GG Allin.

(http://www.alexvisani.com/)

 


Domenica 4 novembre.

DOMENICA UNCUT

DOMENICA 4 NOVEMBRE

ORE 18:30 :
QUELL’ULTIMO GIORNO – LETTERE DI UN UOMO MORTO
(Письма мёртвого человека di Konstantin Lopushansky, URSS, 1986)

ORE 21:00 :
STALKER (Сталкер di Andrej Tarkovskij, URSS, 1979)

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
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QUELL’ULTIMO GIORNO – LETTERE DI UN UOMO MORTO

QUELL’ULTIMO GIORNO – LETTERE DI UN UOMO MORTO
(Письма мёртвого человека di Konstantin Lopushansky, URSS, 1986)


Vivere sottoterra per trent’anni, forse cinquanta, forse per sempre. Questa non è una minaccia, e nemmeno un cattivo presagio, bensì l’obiettivo da raggiungere, per quel che resta dell’umanità dopo l’apocalisse.

Letters from a Dead Man, esordio targato 1986 del russo Konstantine Lopushanskij, allievo di Andrej Tarkovskij e tuttora in attività, racconta l’incubo di un mondo prossimo a sparire, in cui nulla ha più valore, nemmeno il tempo, nemmeno la cultura, in cui l’unico requisito richiesto ad un libro è che abbia la copertina rigida e le pagine in carta naturale buone da ardere per scaldare gli ambienti, in cui ogni ora è uguale all’altra in un crepuscolo interminabile, in cui un’umanità annichilita si trascina per inerzia rinunciando ad ogni prospettiva, e in cui un uomo di scienza profondamente avvilito dal fallimento della stessa può esser preso per pazzo perché rifiuta la tesi del pianeta al collasso, perché nella devastazione generale trova ancora la forza di cercare un appiglio verso il futuro, perché ambisce ad individuare una formula che parli ancora di vita all’aria aperta, perché crede nella sopravvivenza della specie, perché si produce in pensieri positivi e lungimiranti per non morire dentro, perché coltiva un’illusione per darsi un obiettivo, per mantenersi vivo.

Girato a ritmo catatonico e caratterizzato da un impianto visivo fitto e claustrofobico che sfrutta una fotografia monocromatica e densa dominata da inquietanti tonalità seppia per donare alle ambientazioni più varie un senso di sconfortante uniformità e disperante desolazione, quello di Lopushanskij è un film poetico lugubre sconvolgente ed irrimediabilmente pessimista che disegna la parabola discendente di un uomo romantico alle prese con il declino di una specie che non sa più lottare e che ha accettato l’estinzione come conseguenza logica ed inevitabile della propria inettitudine.
Letters from a Dead Man è un’esperienza di non-vita che lascia attoniti e disarmati.
(Estratto della recensione di pazuzu)

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STALKER

STALKER (Сталкер di Andrej Tarkovskij, URSS, 1979)

Un metorite caduto sulla terra ha prodotto strani fenomeni in una zona, prontamente protetta e recintata dall’esercito. Per entrarci esistono però delle guide clandestine, chiamate “Stalker”, capaci di condurre chiunque lo richieda fino alla “camera dei desideri”. Uno scrittore, uno scienziato e uno stalker partono verso la misteriosa zona. Ne torneranno profondamente cambiati.

Per un viaggio al centro dell’universo che potrebbe essere anche l’ultimo. “Stalker” di Andrej Tarkovskij (liberamente ispirato al racconto “Picnic sul ciglio della strada” dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij) è un viaggio “dantesco” negli insondabili misteri del creato, un distillato sublime di tecnica cinematografica al servizio di un incantevole riflessione sulla natura dell’uomo e il senso della vita che si fa etica dello sguardo. L’autore russo ci immerge in un paesaggio acquitrinoso, tra i relitti di un mondo dismesso e la ricerca itinerante di un sapere “irraggiungibile”, dove è la presenza fondamentale e fondativa degli elementi naturali (soprattutto dell’acqua, acqua dappertutto) a fungere da centro gravitazionale di ogni mondo possibile e dove i passaggi cromatici dal bianco e nero virato in giallo della città e i colori sgargianti della Zona danno l’idea della differenza tra ciò che è transitorio in quanto precario e ciò che rimane necessario perché eterno. Segnato dal mirabile equilibrio tra speculazione filosofica e istanze dell’animo, il film è permeato da una forte carica spirituale, una spiritualità laica perché è immanente alle cose del mondo e perchè non ha una natura trascendente ma si accompagna ai percorsi della ragione accrescendone la carica vitale.

Il professore è portato a concepire l’universo come ad una concatenazione di eventi che si susseguono secondo il necessario rapporto di causa effetto.
Lo scrittore è più incline a guardare le cose seguendo l’imponderabile casualità degli eventi che permeano nel profondo l’ordine del mondo. Ma tanto il calcolo razionale quanto l’astrazione intellettuale perdono di ogni consistenza cognitiva all’interno della Zona, dove la ricerca massima della conoscenza comporta l’abbandono del modo solito con cui ci si rapporta con le nozioni di spazio e tempo, dove la strada più consona per arrivare alla meta non è sempre quella più corta e dove le carcasse di carri armati abbandonati , case diroccate, binari ciechi, nel loro essere le macerie di un mondo defunto, danno sostanza a quell’assoluta mancanza di coordinate riconoscibili che accomuna i rispettivi percorsi esistenziali. Penetrare la Zona e sfidare tutte le insidie che la popolano per arrivare fino alla Stanza, nel centro chiarificatore di tutti i misteri, significa, di per se, iniziare a farsi delle domande sulla natura profonfo dell’uomo, su quale carattere permea maggiormente la sua condotta di vita : l’istintiva propensione a perseguire un utile individuale o la capacità altruistica di sapersi in pace solo in sintonia coi propri simili ? essere attratto dal male o riconoscere il bene in quanto tale ? Porsi queste domande significa iniziare a dubitare della propria stessa natura, scoprirsi deboli rispetto alla volontà di potenza di cui si può entrare in possesso. Significa aver paura della Stanza che, da luogo che può esaudire ogni richiesta, si trasforma in quello che può realizzare solo i desideri più intimi e segreti, quelli che caratterizzano nel profondo l’essenza di ogni uomo e “anche se non ne sei perfettamente cosciente, li porti dentro e ti dominano sempre”. Ecco l’esito del viaggio (o uno dei possibili almeno) : la scoperta della limitatezza umana rispetto all’immensa voragine della conoscenza.

Ed ecco la grandezza di Andrej Tarkovskij, che si avvicina ai grandi temi del pensiero filosofico senza risultare didascalico e senza alcuna accenno moralizzante. La sua equidistanza dalle cose che tratta è la stessa che caratterizza lo Stalker, un novello “Caronte” che si accompagna alle dispute dottrinarie dei due compagni di viaggio riparandosi dietro la fideistica accettazione di un mito. Il suo linguaggio cinematografico è proiettato in avanti pur facendo ampio utilizzo della sempiterna potenza creatrice degli elementi della natura. La sua capacità di fare un arte per l’arte si sposa col destino sfortunato della piccola figlia dello Stalker, che riesce a spostare un bicchiere con la sola forza del pensiero, un pensiero che nasce dalla ferma volontà di poterci credere. Il finale ce la restituisce come l’unica fonte di colore in mezzo a un mondo tinto di grigio, sommersa dall’Inno alla gioia che suona come un inno al futuro.
(Estratto della recensione di Peppe Comune )


Il disagio di Toshiaki Toyoda

DOMENICA UNCUT
Domenica 28 ottobre

Ore 18:30

PORNSTAR aka TOKYO RAMPAGE (ポルノスターPoruno sutâ di Toshiaki Toyoda, Jap. 2000)

Ore 21:30

BLUE SPRING (青い春 Aoi haru di Toshiaki Toyoda, Jap,2001)

 

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
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PORNSTAR aka TOKYO RAMPAGE

“Per che cosa sei necessario?”. È questa la domanda che il protagonista ossessivamente rivolge a quelli che incontra nel suo personale viaggio nell’inferno della città. La violenza del mondo si è radicata a tal punto dentro di lui che uccidere diventa quasi una scelta morale. Dal cielo, quando piove, piovono coltelli.

Ottimo esordio questo Pornostar (titolo fuorviante, o forse no, visto che la violenza viene messa in scena freddamente e senza filtri, proprio come un film porno mette in scena il sesso). A metà strada tra gli yakuza movie di Takeshi Kitano e Takashi Miike, il film di Toshiaki mette in scena una violenza cupa, anarchica e fredda, moolto fredda. L’attore protagonista è perfetto e il suo volto descrive ottimamente il cinismo del ragazzo protagonista. Il famosissimo quartiere di Tokyo, Shibuya, è quasi un secondo personaggio del film, con le sue vie e l’umanità varia che la popola, fatta di yakuza, spacciatori e prostitute. In questo contesto arriva questo ragazzo senza nome e porta scompiglio, usando come arma prevalentemente dei coltelli, che addirittura immagina piovano dal cielo in una splendida sequenza surreale e poetica. Insomma, Pornostar è un esordio col botto, uno yakuza movie d’autore che difficilmente si dimentica.

Da vedere assolutamente.

(http://japancult.blogspot.it/)

 

BLUE SPRING

“Il tetto di un edificio scolastico è il luogo dove bande di giovani ragazzi svolgono prove di coraggio per conquistarsi il titolo di capo. Aoi Haru è una storia di “anarchia scolastica”, ambientata in un edificio ironicamente circondato da ciliegi in fiore. Il film di Toyoda (al secondo lungometraggio dopo “Pornostar”) si occupa sia delle lotte per il potere fra gli studenti, sia del loro malessere che può spingerli a compiere atti inspiegabili.”

Non vi è alcuna visione etica e morale, o analitica, nella rappresentazione dei teppisti che infestano in lungo e largo una scuola ai confini del mondo. Quasi metafora del tetro mondo che aspetterà i giovani nel loro prossimo futuro, lasciati a se stessi in toto.

Le vicende del gruppo di Kujo, interpretato da Ryuhei Matsuda, attore che, da giovanissimo, recitò in Tabù (Gohatto) la parte del bel samurai, ma anche in Otakus Love, oltre ad altre dozzine di pellicole famose, non sono raccontate tramite la chiave di lettura dell’amicizia, o dell’unità del gruppo, ma attraverso un’egoistica e personalistica visione del mondo.
Ogni componente è un caso individuale che vivrà in maniera indipendente ogni sua scelta, e che solo secondariamente inficerà il gruppo, e così abbiamo chi sceglie di divenire Yakuza, chi sceglie di trasformarsi nel nuovo boss, chi sporcherà le sue mani nel sangue, chi vorrà uscire dall’ombra imponente del suo migliore amico,e chi non vorrà fare nulla

Unico legame di tutto, un terrificante gioco che si svolgerà sul punto più alto della scuola, sotto il Cielo Blu.

E se Kujo e Aoki chiudono il cerchio di un’’opera volontariamente non coesa, volontariamente non organica, e volontariamente frammentata, rendendo ancora più palpabile il disagio che attanaglia lo spettatore per tutta l’opera, bisogna fare i complimenti alla regia precisa di Toyoda, fatta da un uso esteso di loom/gru, di steadycam, o carrellate estese o panoramiche, il tutto accompagnato da una splendida colonna sonora, spesso marchio di fabbrica del regista Giapponese.

(http://dalparadisoallinferno.iobloggo.com/)


Proiezioni in riva al lago

DOMENICA UNCUT- 12 AGOSTO 2012
SULLA RIVA DEL LAGO DI COMABBIO
Ore 21:30
L’estate di Kikujiro di Takeshi Kitano, 1999.
Ore 23:30
Violent Cop di Takeshi Kitano, 1989.
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Presso LA SAUNA recording studio
Via dei Martiri n.2 -Varano Borghi (VA)
FREE ENTRY
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LA SAUNA :
https://www.facebook.com/pages/La-Sauna-recording-studio/68777161401
http://www.myspace.com/saunarecording
http://www.lasaunastudio.com/
!!! IMPORTANTE !!!
NON PARCHEGGIATE LUNGO LA STRADA PROVINCIALE. MULTA SICURA.
Potete invece lasciare la macchina:
– nel parcheggio vicino al ponte della ferrovia, in direzione varano
– nel parcheggio a 200 metri dallo studio sulla sinistra in direzione Corgeno/Vergiate
– nel parcheggio dal Camping “La Madunina”, sempre in direzione Corgeno/Vergiate, sulla destra a 300 metri dallo studio
-Nelle stradine sulla collina sopra lo studio.
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L’estate di Kikujiro E’ estate. Masao (Yusuke Sekiguchi) è un bambino di nove anni che non ha nessuno con cui giocare. Vive a casa della nonna e non conosce i suoi genitori. Casualmente trova in un cassetto una foto della madre e , con pochi soldi in tasca, decide di mettersi in viaggio nella speranza di poterla rivedere. Kikujiro (Beat Takeshi), alter-ego del rude, irresponsabile e violento Azuma di Violent Cop, viene incaricato dalla moglie di accompagnare il piccolo. La strana coppia incontrerà lungo la propria strada i personaggi più bizzarri e stravaganti: due motociclisti metallari e mammoni, un vagabondo nudista, gli uomini di un boss della malavita…
Masao vivrà un’estate indimenticabile: conoscerà la gioia e la sofferenza ma soprattutto saprà di avere un nuovo grande amico con cui ridere e scherzare. Dolce e commovente, delicato e divertente, L’Estate Di Kikujiro è una pellicola intimamente segnata da un lessico essenziale e dalla costante propensione dell’artista a ricercare una continua sperimentazione nella scelta delle immagini. La ridondanza delle tecniche di ripresa si legge tanto nella sostanziale ciclicità delle scene proposte, quanto nell’attento ed accurato impiego di inquadrature quasi sempre frontali.
Interessante, infine, notare anche la capillare attenzione mostrata per l’illuminazione e rinvenibile, ad asempio, nell’innovativo utilizzo del “bruciante verde estivo”. Come dire che ancora una volta la collaborazione tra Kitano ed il direttore della fotografia Yanagishima ha sortito i suoi più proficui effetti. (Etratto della recensione di revisioncinema.com)

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VIOLENT COP

Prima di questo poliziesco sui generis, Kitano aveva già recitato in diversi film (il più celebre è “Furyo” di Nagisa Oshima). “Violent cop” avrebbe dovuto essere diretto da Kinji Fukasaku, che però diede forfait all’ultimo momento per problemi di salute. Kitano chiese allora di subentrare come regista, ne riscrisse la sceneggiatura e ne cambiò completamente il tono (inizialmente doveva trattarsi di una commedia!), disorientando non poco gli spettatori che non si aspettavano da lui un film tanto duro e cinico. La storia è quella di Azuma, poliziotto sociopatico dai modi spicci e refrattario alle regole, che indaga sull’apparente suicidio di un collega e amico, sospettato di collusione con una banda di trafficanti di droga. Dopo estenuanti inseguimenti, scazzottate al ralenti e spietate sparatorie, la pellicola termina con un finale nichilista che non risparmia nessuno. Pur con uno stile ancora lontano dai livelli che raggiungerà in seguito, l’idea di cinema del regista è già lucida, coerente e originale: lunghe carrellate – o, più spesso, inquadrature fisse – si soffermano sui personaggi e sulle ambientazioni (per esempio nelle prolungate riprese del protagonista che cammina sul ponte della ferrovia), la musica di Daisaku Kume (non c’è ancora Joe Hisaishi, che dal terzo film diventerà un collaboratore fondamentale), che si ispira a Erik Satie, sottolinea in maniera eterodossa tanto le scene concitate quanto i momenti di riflessione, mentre la sceneggiatura descrive le azioni dei personaggi senza inutili didascalismi. Nessun elemento della pellicola è messo a caso, e si ha sempre l’impressione che il controllo del regista su tutto ciò che si vede sullo schermo sia totale, come in Ozu. Molti dei temi e degli elementi più cari al regista sono già presenti, come l’amicizia, il tradimento, la malattia (con la sorella del protagonista che soffre di disturbi mentali e che viene rapita e ripetutamente violentata da una gang di drogati) e le scelte radicali ma necessarie. Il titolo originale significa “Quest’uomo è pericoloso!”

(Etratto della recensione di tomobiki.blogspot.it)


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THE LAST GOREGASMO!

Chiusura Stagione Domenica Uncut

DOMENICA 27 MAGGIO

Ore 17:00 FROM BEYOND di Stuart Gordon, 1986.

Ore 20:00 BRAIN DAMAGE di Frank Henenlotter, 1988.

Ore 22:00 STREET TRASH di J. Michael Muro, 1987.

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
PROIEZIONI GRATUITE

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FROM BEYOND

Tratto dall’omonimo libro del creatore del Necronomicom, H.P. Lovecraft, From
Beyond è un film che trasporta lo spettatore in un delirio a dir poco unico
nel suo genere, un mondo composto da visioni malsane e scioccanti, dove
creature disgustose e viscerali riccheggiano fra bagni di sangue, fusioni
corporee e raccapriccianti mutazioni.

Un allucinante viaggio tra la lussuria metafisica reinterpretata dall’autore
di Re-Animator, Stewart Gordon, il quale ha dato un chiaro esempio di come sia
possibile arricchire una sceneggiatura con delle trovate geniali

From Beyond viene considerato dalla critica unico nel suo genere, in quanto
pur rimanendo una pellicola dal budget molto limitato, vanta di incredibili
effetti speciali a dir poco sbalorditivi. Le riproduzioni delle creature sono
davvero eccezionali e le sequenze splatter hanno quasi del maniacale.

imperdibile!

(Estratto dalla recensione pubblicata da splattercontainer)
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BRAIN DAMAGE

Eccellente ritorno al cinema del genio Henenlotter, che si rivela come uno
degli autori horror-splatter più originali degli anni ’80. La trama narra di
un parassita mostruoso, di nome Elmer, che si insedia sulla nuca delle vittime
iniettandogli un fluido allucinogeno nel cranio. Una volta drogate, le vittime
sono completamente succubi del volere del parassita, che le costringe a
diventare feroci assassini pur di procurargli materia cerebrale di cui è
ghiotto.

Trasgressivo, estremo ed inaspettatamente profondo. Difatti risulta ben
tratteggiata la figura del ragazzo protagonista, pieno di incertezze, dubbi e
paure e che trova nel parassita la forza per reagire e per mettersi in mostra
di fronte agli altri. In parte acida riflessione sugli effetti psicologici
delle droghe, in parte critica alla società che schiaccia l’individuo, “Brain
damage” è probabilmente il miglior film di Henenlotter.

Eccezionale, scatenato, intelligente, diretto con nero umorismo ed abilità.

(Estratto dalla recensione pubblicata da Alexvisani.com)
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STREET TRASH

J. Michael Muro, esperto operatore steadycam all’epoca studente di cinema,
siamo nel 1987, amplia un suo cortometraggio e sforna una splatter-comedy
demenziale senza un apparente senso, ma dall’incredibile impatto visivo che
rappresenterà forse il canto del cigno della parte più anarcoide di un genere,
che negli anni successivi verrà addomesticato e perderà molta della sua forza
espressiva.

Raccontando di un liquore, il famigerato Viper, che scioglie letteralmente in
pozze di liquame chi ne fa uso, Muro tralascia completamente il plot per
lanciarsi in una serie di coreografiche e coloratissime liquefazioni, che
assumono l’aspetto di un mostruoso e lisergico meltin-pot di carne e sangue,
il materializzarsi di un terrificante dopo-sbronza da incubo, che una volta
superato il confine della narrazione mostra la parte più artistoide del
filone, che già Sam Raimi aveva sondato con le possessioni/mutilazioni
selvagge del suo Evil dead.

Da rivalutare perchè: per riscoprire una cinema di genere genuino e lontano da
qualsiasi legaccio produttivo, naturalmente riservato ad irriducibili cultori.

uno dei film splatter più provocatori degli anni ’80

(Estratto dalla recensione pubblicata da Il cinemaniaco)


ASIAN FEAST : Rassegna PINKY VIOLENCE

– DOMENICA 13 MAGGIO –
ASIAN FEAST : RASSEGNA PINKY VIOLENCE

Ore 19:00
FEMALE PRISONER #701: SCORPION
(女囚701号 さそり Shunya Ito, Japan, 1972)

Ore 21:30
DELINQUENT GIRL BOSS : WORTHLESS TO CONFESS
(ずべ公番長 ざんげの値打もない Kazuhiko Yamaguchi, Japan, 1971)

 

I film saranno in lingua originale sottotitolati in italiano.

Presentazione dei film a cura di paolo Simeone di Asian Feast

Spilletta “Pinky Violence” in omaggio per che partecipa a tutte e due le proiezioni.

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Presso:
KINESIS via G. Carducci N.3
Tradate (Varese)
PROIEZIONI GRATUITE

ASIAN FEAST

www.asianfeast.org

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PINKY VIOLENCE
Si tratta di un’etichetta erronea, che significa ben poco nella terra del Sol Levante, ma che e` stata storicizzata ad occidente per indicare tutti quei film con ragazze difficili protagoniste. Si tratta di cinema popolare, che mescola tutti gli elementi migliori della cultura dei 70s nipponica, dalle romantiche e disperate canzoni Enka alla fiorente cultura della vita notturna passando tutti gli stereotipi dei piu` classici Yakuza Eiga. Un miscuglio fatale e bellissimo che ancora oggi influenza tante produzioni odierne e delinea ancora i tratti di molte protagoniste femminili dei film di oggi.

Si parte con Female Prisoner # 701: Scorpion uno dei film che consacro` la piu` famosa delle interpreti del genere e diede origine ad una serie di ben quattro film. Kaji Meiko e` ben nota anche ad occidente direttamente per capolavori come Lady Snowblood, The Blind Woman’s Curse e il succitato film, ma anche indirettamente per le sue ottime canzoni che Quentin Tarantino ha inserito nel suo dittico Kill Bill. La serata prosegue poi con un film meno noto, ma non certo meno bello: Delinquent Girl Boss: Worthless to Confess. Anche questo parte di una serie di quattro film, vede invece come protagonista la bellissima Oshida Reiko, affiancata da altre bellezze del genere come Kagawa Yukie e Katayama Yumiko. A quelli che parteciperanno ad entrambe le proiezioni spettera` in omaggio un premio offerto dal cineclub: una spilletta commemorativa della rassegna con la bella Reiko impressa sopra. (paolo Simeone /Asian Feast)

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FEMALE PRISONER #701: SCORPION
Female Prisoner # 701: Scorpion, ispirato ad un acclamato manga di Tooru Shinohara racconta la genesi di Nami, nota come Sasori (Scorpion), divenuta nel tempo un po’ il simbolo stesso dei “women in prison” e interpretata da un’intensa Meiko Kaji (Lady Snowblood, Stray Cat Rock). “It’s stylish, well written, with some quirky elements” scrive Thomas Weisser, mentre è ormai ora di ridimensionare la serie e contestualizzarla adeguatamente. Meiko Kaji era la figura rappresentativa della serie della Nikkatsu, Stray Cat Rock (Alleycat Rock/Naraneku Rokku, 1970-1972), ma a causa della ripetitività degli episodi lascia la casa di produzione e approda alla Toei dove diventa ben presto la regina della serie Sasori, composta di sei episodi (4+2, tra il 1972 e il 1977), un remake del 1991, alcune versioni video e altre versioni/ombra come solo in Giappone sanno fare. L’attrice reciterà però solo nei primi quattro capitoli dopodiché lascerà la Toei per raggiungere la Toho e interpretare il suo più grande successo di sempre, Lady Snowblood (1973).

All’inizio di Female Prisoner # 701: Scorpion la vediamo nel tentativo di evasione (fallito) insieme ad una compagna, interpretata da Hiroko Ooji. Riaccompagnata nel carcere femminile di massima sicurezza verrà mostrato finalmente il flashback esplicativo; Nami, coinvolta dal suo amante poliziotto in una missione, viene da lui tradita, stuprata da una gang e abbandonata. Ripresasi tenterà di uccidere il poliziotto ma invano; Il tempo per la vendetta arriverà solo dopo un’ora e mezza intensissima di film.

La parte centrale del lungometraggio è un classico “women in prison” e come da definizione del sottogenere, diviene pretesto per una passerella continua di nudi femminili, timide sequenze saffiche, crogioli di poliziotti arrapati e violenti. Fosse solo questo, la parte centrale risulterebbe la meno coinvolgente e la più pesante. Fortunatamente è lo stile e la folle creatività del regista a fare la differenza. La macchina da presa si muove brusca spostando continuamente l’asse di visione, riuscendo ad andarsi ad infilare in luoghi extradiegetici per mostrare non più o meglio ma in modalità diversa (come l’inquadratura fatta da sotto il pavimento –trasparente- durante la sequenza dello stupro di massa). Alla regia si uniscono altri due elementi: un utilizzo forzato ed antinaturalistico delle luci e degli inserti di visionarietà pop. Simbolo stesso del film è la sequenza in cui una prigioniera cerca di uccidere Nami ma viene fermata dalla prontezza della ragazza che le frantuma una porta a vetri sul viso. Da quel momento si sviluppa una sequenza del tutto estranea al film: delle luci azzurre mostrano la ragazza ferita con i capelli irti sopra la testa e il viso, flagellato dai vetri, che si trasforma in una specie di maschera demoniaca del folklore giapponese. Sequenze come questa, o quella delle prigioniere sedute nell’orticello delle fragole che si dipingono le labbra con un finto rossetto ottenuto dai succhi dei frutti scaraventano il film nel reame dei folli lungometraggi giapponesi trasudanti furori ultrapop degli anni ’70. Meiko Kaji canta la canzone dei titoli di testa e di coda, non era la prima volta, ma questa sarà la prima di una lunga serie di successi.
(Senesi Michele Man chi)
http://www.asianfeast.org/recensioni/female-prisoner-701-scorpion

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DELINQUENT GIRL BOSS : WORTHLESS TO CONFESS

In poco più di sei mesi, a cavallo tra ’70 e ’71, si consumava l’intera saga composta da 4 film dei Delinquent Girl Boss. Protagonista ne era la bella e giovanissima Oshida Reiko, salita già alla ribalta delle cronache cinematografiche giapponesi per il significativo ruolo della bella ninja Rui in Quick Draw Okatsu. Il bilancio della serie fa constatare come il tentativo in sede di produzione fosse quello di fidelizzare lo spettatore. In tutti i film Oshida Reiko interpreta il ruolo di Kageyama Rika, che appena uscita dal riformatorio di Akagi, va a costruirsi una nuova vita nella grande città. E nel far questo le capita di rincontrare ex-compagne di cella o meglio dire “attraversare” le vite queste ragazze che hanno più o meno gli stessi volti e gli stessi personaggi di film in film. Per questo si tratta sostanzialmente dello stesso personaggio, ma anche dello stesso film, ogni volta. Sempre uguale, eppur diverso. Come fosse una bella canzone re-arrangiata per la nuova occasione.

Worthless to Confess però è ben più di un semplice instant movie nato sulle note dell’omonima canzone (Zange no Neuchi mo Nai) che fu l’esordio della cantante di Enka Kitahara Mirei. Questo nonostante la stessa cantante si esibisca a metà film pressapoco con il suo secondo singolo (Suteru Mono Ga Aru Uchi Wa Ii), così come accadeva con l’altra diva pop Fuji Keiko compariva nel primo film della serie Delinquent Girl Boss: Blossoming Night Dreams. A ben vedere, sebbene vi sia la riproposizione dei medesimi schemi sin dal primo film, l’ultimo della serie risulta più complesso e mediamente strutturato meglio. Il meccanismo risulta ben oliato dal regista Yamaguchi Kazuhiko, non certo uno sconosciuto visto che di lì a poco avrebbe diretto altri grandi classici ed intere saghe per la Toei. Bastino citare i due Wandering Ginza Butterfly con Kaji Meiko, i vari Sister Street Fighter con Shihomi Etsuko e il dittico Karate Bearfighter/Karate Bullfighter con Sonny Chiba. Dove finisse il mestierante e iniziasse l’autore è come al solito difficile da definire con i registi contrattati della Toei, ma il fatto che fosse spesso co-sceneggiatore dei suoi film lascia ben sperare. Ed è notevole anche il cortocircuito instaurato nei primi minuti, quando nel riformatorio delle ragazze viene trasmesso Man from Abashiri Prison, il più grande successo del collega Ishii Teruo con protagonista Takakura Ken, che serve in qualche modo ad instaurare il parallelo tra la prigione femminile di Akagi della serie e quella maschile ben più nota di Abashiri.

In questo specifico caso Yamaguchi consegna un ottimo film, non a caso tra i più amati del sottogenere dedicato alle ragazze ribelli, dove i personaggi sono ben delineati anche grazie ad un ottimo cast che vede oltre ai soliti comprimari della Oshida anche la presenza di grandi ospiti. C’è la bellissima Katayama Yumiko, ben nota in patria per il suo ruolo nel cast fisso della leggendaria serie TV Playgirls, ma anche il grande Junzaburo Ban, monumento del cinema, che vantava nella sua carriera film con Kurosawa (Dodes’ka-den), Oshima (Il Cimitero del Sole) e Inoue (Tokyo Cinderella Girl). I due interpretano figlia e padre in crisi affettiva, finché nelle loro vite non irrompe la vitale ed energetica Rika. Attorno ruotano le altre presenze fisse della serie come la disperata Kagawa Yukie con il suo compagno ex-Yakuza, interpretato dall’altro ospite d’eccezione Nakatani Ichiro (La Sfida del Samurai, Harakiri, Kaidan), ma anche Tachibana Masumi e Tsudoi Mieko, che lavorano come intrattenitrici nel club in cui fa da inserviente Hidari Tonpei.

Il rendez-vous finale con il laido boss cattivo Kaneko Nobuo (Vivere) è iconograficamente rappresentativo del grande status di salute della cultura popolare e giovanile del Giappone dei tempi. Immagini che si stampano nella memoria quelle delle cinque ragazze con la divisa della loro gang riunita e il lutto al braccio che urla vendetta, ma anche attimi intensi, vuoi anche commoventi, come il lungo e disperato discorso a favore di macchina della Oshida assieme alle altre nella classica posizione della Jikoshokai Yakuza. Sulle sirene della polizia si chiude un’altra splendida tragedia sui perdenti, sui reietti della società, sulla loro dignità di esseri umani cui ci aveva abituato il bel cinema nipponico di quegli anni.
(Paolo Simeone)
http://www.asianfeast.org/recensioni/delinquent-girl-boss-worthless-to-confess

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